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sabato 6 marzo 2010

Convertirsi è occuparsi di sè

I primi versetti del vangelo che la Chiesa ci offre in questa terza domenica di Quaresima, ci presentano la situazione sconcertante di alcuni «Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici». La notizia del fatto corre di bocca in bocca ed arriva fino a Gesù, il quale immediatamente associa questo desolante episodio con un’altra notizia tragica di cui aveva sentito parlare: quella di «quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise».
Sono fatti di cronaca nera – diremmo noi col nostro linguaggio moderno –, sono fatti in cui tutte le generazioni si imbattono, così simili a quelli che anche noi oggi possiamo trovare aprendo uno dei nostri quotidiani: tragedie, morti, sopraffazioni, inganni… Sono i fatti di sempre; fatti che in tutte le generazioni hanno ingenerato domande, urla, tentativi di soluzione, fallimenti: “Perché succedono queste cose?”, “Cosa bisogna fare perché non succedano più?”…
E come sempre – anche al tempo di Gesù – si cercano risposte. Risposte che spesso però saltano a piè pari la drammaticità della tragedia e la fatica del capacitarsene e vogliono arrivare rapide a dare ragione di ciò che ragione non ha… Al tempo di Gesù la soluzione più immediatamente a portata di mano (la risposta pre-confezionata) era quella del principio della retribuzione: se c’è una tragedia è perché dietro c’è un peccato; se un figlio nasce malato è perché i suoi genitori o chi per essi hanno peccato; se ad Haiti o in Cile c’è il terremoto è perché gli Haitiani o i Cileni hanno peccato…
Evidentemente è una risposta assolutamente senza fondamento (Gesù stesso – come vedremo – ma già anche l’A.T. la smentiscono), una risposta che a noi oggi ripugna, eppure: quante delle nostre risposte di oggi sono ancora fatte così? Di questo tipo? Risposte pre-confezionate, luoghi comuni, frasi fatte, che impediscono di pensare radicalmente ai problemi e ci consentono di perseguire una scorciatoia per non doverci davvero mettere faccia a faccia con le tragedie del nostro mondo, con le nostre, con quelle dei nostri fratelli e con il doveroso rendere e rendersi ragione di ciò che (ci) accade? Io credo (temo) siano tante…


Oggi come allora infatti di fronte alle esperienze del non-senso, di fronte a quei fatti che mettono in discussione il normale ordine delle cose, la loro sensatezza e giustezza, la risposta umana assomiglia sempre a un tentativo maldestro e mal riuscito di trovare balbettanti – se non ripugnanti – argomenti che non riescono mai a fronteggiare le cruciali domande che i problemi pongono: come allora infatti – solitamente – si fa un po’ di chiasso nei primi giorni della tragedia e poi si preferisce mettere a tacere le domande che essa ha sollevato, riprendendo la propria vita come se nulla fosse stato. Non a caso “La vita continua” è precisamente uno dei luoghi comuni più abusati di fronte alle tragedie del nostro tempo (siano essere personali, familiari, sociali…).
Come dicevamo Gesù fa diversamente. Esattamente come noi scardina la risposta preconfezionata che la sua cultura aveva partorito per le varie tragedie della sua storia (il principio della retribuzione) – dice infatti per due volte: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico» – ma non si ferma qui, non propone un altro luogo comune diverso, non si sottrae alla tragicità della questione. Il problema rimane ed egli lo fronteggia. Il problema infatti – al di là dei singoli episodi che lungo la storia cambiano nomi e scenari, ma mantengono la stessa drammatica trama – è quello del rimando di questi fatti alla più radicale insensatezza/incompiutezza della vita. Dice infatti Gesù: «perirete tutti allo stesso modo»; intendendo dire che il problema dell’insensatezza della vita è il problema che riguarda o può riguardare tutti, anche quelli che non fanno una fine tragica: è il problema della domanda che queste tragedie pongono a ciascuna singola persona, a me. Di fronte a questi fatti che rimandano in maniera inequivocabile alla precarietà della vita, alla sua durezza, al suo possibile triste esito (che non vuol dire che non tutti vanno in paradiso, ma che non tutti muoiono sereni nel loro letto circondati da chi li ama), il problema vero su cui Gesù vuol concentrare l’attenzione di chi lo ascolta è: ma tu perirai nel non senso? Che vuol dire: Ma tu stai vivendo sensatamente? Perché se la risposta è sì, non c’è morte tragica che ti possa togliere quella sensatezza; ma se la risposta è no, non c’è morte più tardiva e tranquilla che possa dartela!
Il problema di fondo dunque, il nocciolo della questione a cui Gesù va sempre, senza fronzoli e scorciatoie, è quello della vita individuale di ciascuno, della singolare ricerca del senso, della personale costruzione di sé che si sta attuando: di che qualità è?
Ecco perché immediato scatta l’invito alla conversione: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»! Perché il rischio di “perire”, di “finire nel non senso”, di “non credere che ci sia un senso per me” è precisamente il dramma che si profila negli abissi di ciascun cuore umano. E lì bisogna convertirsi! Dove convertirsi evidentemente non è un problema di morale o una generica revisione dei propri peccati, ma è la domanda radicale che penetra fin nelle midolla e chiede: Dove è riposto il tuo senso? In chi è riposto?
Il senso di quella necessità di conversione è infatti specificato dalla parabola che compone la seconda parte del brano di vangelo odierno, dove l’attenzione è posta precisamente sulla cura cui il fico sterile verrà sottoposto, prima di essere nuovamente vagliato: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». Convertirsi per non perire nell’insensatezza consiste allora precisamente nello zappare e concimare, cioè – fuor di metafora – nell’occuparsi di sé, nel prendersi cura della propria destinazione (i propri frutti), nel non lasciar scorrere la nostra vita nella genericità come se fossimo chiunque, nell’accudire la propria interiorità con quella tenerezza con cui una madre accudisce il proprio piccolo e lo guarda sorridente, anche quando sbaglia… solo così impareremo a non evitare i drammi della vita, ma a lasciarcene scavare l’anima orchestrando un senso, come la storia seguente suggerisce:
«M come MORTE.
La cronaca gli ha dato un nome di fantasia, Tommy. Ha otto anni, frequenta una scuola elementare di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Non è un bambino fortunato: per lunghi mesi suo padre viene ricoverato in ospedale per un tumore. Purtroppo le condizioni del genitore peggiorano e Tommy, che gli è legatissimo, non sente ragioni: non lo vuole lasciare nemmeno un giorno, vuole stare vicino a papà fino all’ultimo. Tommy fa ovviamente molte assenze da scuola in quei tragici mesi. Poi il padre lo lascia. Tommy torna a scuola – gli insegnanti sanno tutto, da sempre – e viene bocciato. L’opinione pubblica della cittadina immagino abbia mugugnato, qualche quotidiano ha espresso un effimero sconcerto, gli insegnanti avranno addotto le loro brave ragioni, il direttore non avrà certo paura dell’ispettore che il ministro ha spedito a Sesto San Giovanni. E Tommy?
[…] Tante volte sono stato invitato in scuole dove un allievo era morto suicida o aveva perso la vita contro un albero all’alba di una domenica, pieno di alcol e pastigliette. Gli insegnanti volevano me in quanto “esperto”, perché troppi di loro non sanno parlare di morte, esattamente come non sanno parlare di vita. Mi sarebbe piaciuto che la scuola elementare di Tommy avesse organizzato brevi corsi suppletivi per lui, per stargli un poco vicino a casa o in ospedale: avrebbe sentito che gli adulti non sono tutti discendenti di Erode, che ve ne sono di capaci di empatia.
Ma quanto è ciecamente crudele questa cultura dell’efficienza che non accoglie, non accompagna il tempo del pianto, nemmeno per un padre: si deve essere perfetti, capaci di rimuovere malinconie e disperazioni in nome della produttività, anche quella di una scuola elementare.
Sarà in pace il direttore scolastico, lo saranno anche gli insegnanti: hanno applicato le regole, sono stati impeccabili, l’avrà ribadito anche l’integerrimo ispettore ministeriale. Di una cosa però sono certo: che Tommy, quando diventerà adulto, sarà molto meglio di tutti loro. Lui non ha rifiutato la morte, si è fatto coraggio e ha accompagnato il padre ad andarle incontro: conosce già quanto è fragile la vita e saprà per questo rispettarla. Tommy avrà un grande maestro cui dedicare tutti i suoi sforzi migliori, un uomo conosciuto per poco tempo ma infinitamente più importante per lui, pur nella morte, di tanti ignavi e impotenti burocrati vivi» [P.CREPET, Sfamiglia, Einaudi, Torino 2009, 131-134].

2 commenti:

Sam ha detto...

La storia del bambino mi fa molta tristezza, anche se purtroppo non mi stupisce affatto, viste le esperienze personali che sto facendo. Ormai anche a scuola (elementare!...partiamo proprio dagli inizi) e persino in ospedale l'unica logica è quella della produttività, costi quel che costi.Al limite, se proprio non si può produrre, si segue la logica del "copriamoci le spalle": si può fare di tutto, basta che la forma sia salva. Il problema è che la vita (quella vera) non ha "prezzo"....

Denise Cecilia ha detto...

Non mi stanco mai di rallegrarmi per la possibilità che offri con le tue lectio di rimarcare quanto i princìpi chiave, in tutte le cose, siano intrisi di semplicità.

Il significato - ed il senso - della conversione, che non può essere forzata nè applicata alla vita dell'altro ma soltanto alla propria; chiede proprio di essere trasmesso con questa chiarezza incisiva ma lieve.


Leggendo la storia di Tommy, non ho potuto non farmi una domanda: dove sono i compagni, ed i genitori dei compagni di scuola, nel racconto? E nella realtà, hanno avuto un ruolo o erano altrettanto inesistenti? Più ci torno meno trovo una risposta soddisfacente.

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