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sabato 13 marzo 2010

È questione di sguardi

In questa quarta domenica di Quaresima, che la Chiesa tradizionalmente chiama laetare perché sospende il cammino di penitenza dei quaranta giorni prima di Pasqua, anche il vangelo sembra rimandare a quel clima di allegrezza che si mostra a livello liturgico (i canti della Messa non parlano che di gioia e di consolazione; si fa risentire l'organo, rimasto muto nelle tre Domeniche precedenti; è consentito sostituire i paramenti violacei coi paramenti rosa, colore che pur rimanendo legato al viola della penitenza, è alleviato dal bianco dell'imminente solennità; ecc…): il capitolo 15 di Luca è infatti uno dei più inequivocabili nel trasmettere la letizia dell’essere figli di questo Padre.
La cosiddetta parabola del padre misericordioso, più conosciuta come quella del figliol prodigo, mette in gioco infatti – al di là delle altre molteplici cose che si potrebbero dire – un gioco di sguardi sul personaggio del padre. È interessante guardare a questo racconto ponendosi come uno spettatore che osserva lo svolgersi della scena con in testa una domanda fondamentale: A partire da ciò che fanno e dicono i vari personaggi, qual è l’idea del padre che hanno in testa? Il primo figlio che immagine ha di suo padre? E il secondo? E il padre stesso, come si propone sulla scena? Cosa dice di sé, agendo e parlando?
Le domande evidentemente sono fondamentali, perché in ultima analisi è la stessa questione che il lettore stesso è chiamato a porsi: Io che idea ho di questo padre? E fuor di metafora: Qual è la mia idea di Dio? Senza dimenticare che la parabola è raccontata in un particolare contesto, quello in cui vedendo Gesù circondato da pubblicani e peccatori, «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, a partire dalla storia narrata nella parabola, proviamo a delineare le varie idee di padre che emergono nei cuori e nelle teste dei personaggi. In primo luogo quella del figlio più giovane, il primo a comparire sulla scena. Egli, dopo essersene andato ed essere caduto in disgrazia, ragiona più o meno in questo modo: suo padre non potrà certo riaccoglierlo come un figlio, ma se non altro lì a casa si può mangiare; suo padre – egli pensa – avrà perciò il buon cuore di accettarlo come suo servo. Ragiona cioè nella maniera che pare più logica anche a tutti noi, che infatti parte da un presupposto solitamente assai condiviso, quello della retribuzione/reciprocità. Il padre punirà i suoi misfatti (non lo può riaccogliere come figlio; anzi il figlio non spera nemmeno in questa eventualità, non gli salta nemmeno in mente come possibile), ma potrebbe riaccoglierlo come servo, in nome dell’antico affetto o per lo meno della pietà a cui spera di muoverlo. In qualche modo cerca da lui il dovuto, o poco più del dovuto.
Proprio in questa logica va rintracciata la prima identificazione cui la parabola di Gesù chiama colui che la ascolta: precisamente questo modo di ragionare del primo figlio, questo suo modo di pensare il padre, coincide col nostro modo di pensare Dio. Non un Dio cattivo, anzi un Dio che come servi ci riaccoglierebbe mosso a pietà dalla nostra miseria. Diremmo: un Dio giusto. Che dà il giusto. A ognuno il suo: anche il perdono ai pentiti.
Ma proprio qui la parabola fa scattare il suo meccanismo, creando uno stacco sorprendente, quasi incomprensibile: al lettore che segue annuendo al discorso che il figlio giovane si fa tra sé e sé («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), si presenta una scena non prevista: il padre «quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Non lascia nemmeno finir di parlare il figlio, che tentava di ripetere il pensiero che aveva formulato nel suo cuore («Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”») «e cominciarono a far festa». Dove la cosa più interessante, più imprevista, quella che dovrebbe far sobbalzare l’ascoltatore è che – contrariamente all’immagine del padre che il figlio più giovane aveva in testa – questi non aspetta il suo pentimento e – solo a posteriori – gli concede di essergli servo, ma piuttosto preventivamente lo perdona e lo riaccoglie come figlio.
Il punto critico è perciò quello per cui lo sguardo con cui il figlio guardava al padre era sbagliato, falsificava la realtà, non era conforme all’identità del padre. Più precisamente ancora: lo sguardo con cui il figlio si sentiva guardato dal padre non corrispondeva alla realtà, allo sguardo con cui il padre lo guardava.
E questo è il punto interessante per gli ascoltatori, dunque anche per noi: Qual è lo sguardo con cui guardiamo a Dio? È conforme alla realtà (di Dio)? Alla sua identità? E soprattutto, come è lo sguardo con cui ci sentiamo guardati da lui? È in sintonia con questa parabola? Con questa scena in cui emerge, per esempio, che – ben al di là del luogo comune per cui Dio ci perdona se ci pentiamo – in realtà egli ci perdona a prescindere? Cioè continua a custodire la nostra identità di figli e a guardarci così, anche quando noi roviniamo o sfuochiamo questo nostro volto (Non a caso il salmista lo chiama «salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 42,6d) e un grande teologo come P.A. Sequeri ricorda che «L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde l’uomo con il serpente»!)? È in sintonia con il resto del vangelo? Con lo sguardo con cui è necessario che Gesù guardi ai poveri, agli affamati, agli afflitti, ai perseguitati… agli incompiuti della storia, per chiamarli beati (Lc 6,20-23)? O allo sguardo che deve avere per proclamare e vivere come unica strada per la felicità l’amore ai nemici (Lc 6,27-38)? O la disposizione che deve avere perché a lui si avvicinassero «tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo»?
Perché questo è il Dio che Gesù rivela nel suo vangelo, esattamente come così è la vera identità del padre che emerge dalla parabola, al di là dell’idea dell’uno e dell’altro figlio…
…A proposito dell’altro figlio… il maggiore, quello che entra sulla scena solo nel finale… Anche la sua idea di padre non si scosta molto da quella del fratello: anche lui ha in mente un padre giusto, che dà il giusto, il dovuto, incapace del contrario, cioè del gratuito, delle cose gratis, dell’amore a perdere. Ma proprio qui sta l’inganno… Nel tentativo, suo e nostro (e dei farisei che occasionano la parabola, tanti simili a questo secondo figlio…), di bilanciare la vita sul dovuto: su ciò che mi è chiesto e ciò che è giusto io riceva… sul reciproco scambio, sul do ut des, sul tanto mi tanto, come se il dovuto potesse appagare il desiderio di Vita dell’uomo...
Il p(P)adre è altro rispetto a questo calcolatore e bilanciatore, sembra dire la parabola. Dio è altro, sembra dire il vangelo. La felicità è altrove, sembra dire Gesù: solo la verità dello sguardo con cui Dio guarda all’uomo senza dimenticarsi mai che è suo figlio, e solo l’acquisizione da parte dell’uomo di questo sguardo che vede l’altro senza mai dimenticarsi che è suo fratello, è Vita!

1 commento:

Denise Cecilia ha detto...

Ciò che mi colpisce in questo (nostro) p(P)adre è la pazienza.
Una pazienza che è 'conservativa' dei propri doni e del proprio amore; ma priva sia di aspettative per un ritorno certo del figlio - ritorno naturalmente morale prima che fisico - sia della limitatezza che ci caratterizza, la nostra misura di sentimento tanto 'piccola' da tracimare assai presto e trasformare la semplice sfiducia in dis-sperazione.

Più ancora della gratuità del dono, è la pazienza del donatore che mi fa fermare a scrivere.

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