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venerdì 18 gennaio 2008

È troppo poco…

Le letture che la Chiesa ci propone per questa II domenica del tempo ordinario risultano un po’ complesse: da un lato infatti contengono una ricchezza tale da lasciare chi tenta di dirne qualcosa un po’ inibito… dall’altro hanno l’inghippo di richiamare molto da vicino le letture di domenica scorsa... Ad ogni modo…

La prima cosa da notare è che, seppure in qualche modo ci si riferisce ancora al Battesimo di Gesù, lo scenario teologico è cambiato rispetto a quello matteano: siamo immersi infatti oggi nella prospettiva di Giovanni.
Egli ha delle caratteristiche personali davvero notevoli che lo contraddistinguono rispetto ai sinottici, per cui vale la pena darne un panorama.
La prima cosa da rilevare è che la figura del Battista assume una caratterizzazione particolare: nel Vangelo di Giovanni infatti egli, pur mantenendo qualche caratteristica del precursore («colui che viene dietro di me è passato avanti a me perché era prima di me», Gv 1,15.29), è piuttosto identificato come il testimone: «E io ho visto e ho reso testimonianza» (Gv 1,34).

Inoltre non è mai chiamato con il nome Battista (baptistes), che è l’aggettivo verbale di baptizo, ma il battezzante (baptizon); si usa cioè il participio presente del verbo. Questa, che in prima battuta può forse sembrare una semplice notazione grammaticale, in realtà è un’indicazione utile per capire come chi scrive il Quarto Vangelo (d’ora in poi QVg) intenda questo personaggio: da un lato infatti in questo uso linguistico si rivela una certa confidenzialità data a Giovanni Battista, dall’altro il fatto che il QVg qui ometta di mettere quel titolo che solitamente ama dare ai suoi personaggi, ha un senso preciso. Lo scopo infatti, a detta del biblista Roberto Vignolo, pare essere quella che lui chiama una contorsione di rappresentazione narrativa nella costruzione di questo personaggio. Il punto cioè sembra essere la difficoltà di presentare un personaggio che mentre viene esaltato (è il più grande fra i nati di donna – Mt 11,11; è il precursore; è il testimone; per i sinottici è addirittura il nuovo Elia), deve essere anche ridimensionato («non sono il Cristo», Gv 1,19; «Egli deve crescere e io invece diminuire», Gv 3,30).

Ciò emerge nello specifico anche nei versetti del Vangelo di Giovanni che la liturgia ci propone (1,29-34) per questa domenica. Essi corrispondono alla seconda delle tre testimonianze che il Battista dà di Gesù nel I capitolo (la prima era quella espressa in Gv 1,19-28 ai sacerdoti e ai leviti, che erano stati inviati dai Giudei per capire chi fosse questo battezzatore; la terza è quella che apre il racconto della vocazione dei primi discepoli, Gv 1,35-42).

La cosa più interessante di questa seconda testimonianza del Battista è la censura posta in campo: non è raccontato infatti il Battesimo ricevuto da Gesù, per mano di Battista, al Giordano. Si dice solo della discesa dello Spirito Santo, che il Battista ha visto e poi testimoniato.
Il senso di questa omissione sembra probabilmente rientrare proprio nel discorso del ridimensionamento per cui si vuole cominciare a facilitare l’idea di un Giovanni Battista tutto a servizio testimoniale di Gesù.

Ma se di Giovanni è sottolineato così tanto il ruolo del testimone, è per la pregnanza di ciò che testimonia, o meglio, di colui al quale rende testimonianza. Questi versetti 29-34 infatti, rispetto alla I testimonianza che era al negativo («Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono il Cristo”», Gv 1,20; «Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, Elia, il profeta?» Gv 1,25), mirano ad attestare l’identità di Gesù. Egli infatti è:

- l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo;
-
colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”;
-
colui sul quale è disceso e rimasto lo Spirito;
-
colui che battezza nello Spirito Santo;
- il Figlio di Dio.

Il primo e l’ultimo titolo (Agnello di Dio e Figlio di Dio) sono due espressioni che anche linguisticamente si richiamano. Il secondo, Figlio di Dio, è il titolo cristologico più rappresentativo del QVg, mentre il primo, agnello di Dio, compare solo qui. È su di esso quindi che maggiormente va posta l’attenzione, anche perché ci sono almeno quattro interpretazioni possibili:

1- Una prima interpretazione vede un riferimento diretto a Isaia 42, intendendo Agnello di Dio come il servo di Dio (in aramaico infatti servo e agnello si dice nella stessa maniera). Gli elementi comuni tra Isaia 42 e Giovanni sono infatti numerosi: servo, eletto, spirito, predicazione. Lo Spirito dato a Gesù (Gv 1,32.33) sarebbe allora quello che caratterizza la sua missione di servo, in quanto
predicatore, in quanto colui che porta la parola di Dio alle genti.
2-
La seconda fa riferimento a Esodo 12 e alla figura dell’agnello pasquale. In questo senso è significativa la coincidenza della cronologia giovannea che sposta gli eventi della passione, tutti un giorno prima rispetto ai sinottici. In questo modo nel QVg Gesù non muore venerdì santo, ma la vigilia di venerdì, esattamente nello stesso momento in cui nel Tempio sono immolati gli agnelli per la
celebrazione di veglia e della cena pasquale.
3-
La terza fa riferimento al servo di Dio di Isaia 53,7, dove si parla dell’agnello condotto al macello come pecora muta davanti ai suoi tosatori.
4- L’ultima soluzione è l’interpretazione dell’agnello come simbolo del Messia. Il riferimento migliore l’abbiamo nell’Apocalisse giovannea: all’inizio del libro c’è infatti la scena famosa dell’agnello. Dovrebbe arrivare un leone (il leone di Giuda), colui che ha vinto ed è l’unico in grado di sciogliere i sigilli del libro. In realtà invece del leone arriva proprio un agnello…

Gli studiosi consigliano di non scegliere tra queste possibilità… Essi sostengono che forse è più giusto dire che quella di Giovanni è una teologia molto stratificata, multisignificante, in cui tutte e quattro queste accezioni vanno tenute.
Se questo è vero però, in questa seconda domenica del tempo ordinario dobbiamo anche notare che l’accostamento dei testi scelti dalla liturgia, porta a sbilanciarsi sulla prima sottolineatura. La prima lettura infatti fa riferimento proprio a quel servo di Dio che riceve lo Spirito in quanto predicatore, in quanto colui che porta la parola di Dio alle genti (come in Is 42): «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6).

Prospettiva questa a cui fa eco anche san Paolo nel suo incipit alla Lettera ai Corinzi: «a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo».
In questa linea allora va trovato il filo conduttore dei testi di oggi: essi infatti hanno tutti una funzione rivelativa, con lo scopo di far emergere l’identità di Gesù.
Egli, il Figlio di Dio (Gv 1,34) e il Signore nostro e loro (1Cor 1,2), è colui che libera dal peccato attraverso la sua parola di verità. Verità che è lui stesso in persona.

Proprio per questo, perché non porta semplicemente una verità, ma è Lui la Verità… proprio per questo rimane sempre incontrabile da tutti. È troppo poco per Lui perciò rimanere chiuso in un’elezione settaria (non è solo per alcuni), in un’interpretazione esclusiva (non corrisponde all’idea di lui che qualcuno si fa), in una prassi preordinata (non c’è un percorso automatico per incontrarlo), in una morale aprioristica (non è seguendo un codice etico che mi conformo a lui), in una oggettivazione dottrinale (non è una dottrina che devo acquisire)…
Spesso purtroppo e forse inevitabilmente i percorsi religiosi (ebraici prima ed ecclesiali poi) hanno rischiato di imprigionare la forza esplosiva di questa Verità fatta persona che chiede di portare la sua salvezza fino all’estremità della terra. L’hanno fatto (lo facciamo) sempre per ragioni validissime (riassumibili nella salvaguardia di verità – appunto – come se la Verità avesse bisogno dei nostri dogmi per essere salvaguardata), intimoriti da conseguenze disastrosissime (che qualcuno chiama relativismo)… peccato che poi ci perdiamo per strada tutta una grandissima fetta di umanità che sta all’estremità della terra…

Forse dal punto di vista di un Dio che vuole raggiungere il cuore di ogni uomo fino agli estremi confini del mondo, la chiusura che spesso caratterizza le nostre conventicole cattoliche (che prima di aprirsi a qualcuno guardano con chi va a letto, quante volte si è sposato, cosa mangia il venerdì santo…) è davvero troppo poco…

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