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domenica 9 marzo 2008

È solo la fiducia nella Vita che colloca convincentemente la morte

Ed ecco che la liturgia della Quaresima, avendoci accompagnato, nel suo svolgersi, all’incontro con le grandi questioni della vita – quelle che la rendono appunto umana, umanizzata (il male – Mt 4,1-11; l’identità di Dio – Mt 17,1-9; la fonte-senso della Vita – Gv 4,5-42; il valore normativo dell’incontro personale con Gesù – Gv 9,1-41) – ci porta ora nel problema dei problemi, nell’ostacolo insormontabile, nell’ineluttabilità che soffoca il gemito vitale che è in noi… la morte… Il vangelo di Giovanni 11,1-45 infatti pone proprio in campo una scena chiarissima di incontro-scontro con questa realtà.
Interessante che protagonista di questo imbattersi sia proprio la libertà di Gesù; interessante soprattutto perché, mentre noi tendenzialmente parliamo del rapporto Gesù-morte come del rapporto Gesù-e-la sua propria morte, qui invece è messo in campo un imbattersi di Gesù con il mistero della morte di un altro…
E questo, da principio, ha un valore importante e confortante perchè ci rivela un Gesù, che anche in questo segue i percorsi comuni degli uomini: come tutti infatti si trova a confrontarsi con il mistero della morte, innanzitutto scontrandosi con la morte di un altro, proprio come avviene anche per noi che ci accorgiamo/ricordiamo del morire quando muore qualcun altro.
Neanche Gesù quindi nasce già capace di morire, di dare la vita, come se questo in lui avvenisse senza uno scontro con la drammatica umana. Anzi anche per lui, come per tutti, l’elaborazione della realtà del morire (del passaggio dal si muore, all’io sono destinato a morire), si dà dentro ad una drammatica storica, che nello scontro con la morte di una persona amata, mi anticipa la mia stessa morte e mi chiede un prenderne coscienza, che si evolve poi in un pensare la cosa, in un renderne ragione, in un’introdurla in un orizzonte di senso (sensato appunto).
Inoltre questo mettere in scena l’incontro della libertà stessa di Gesù con la morte dell’amico Lazzaro, ha un valore importante perché nel percorrere lo svolgersi di questa drammatica (anzi essendoci tirati dentro, come se anche noi fossimo là), emerge l’identità stessa di Gesù di fronte al male radiale, emerge chi lui sceglie di essere di fronte alla questione delle questioni, la sua singolarissima presa di posizione dinanzi alla morte: cosa, anche questa, tipicamente umana, perchè ogni uomo per vivere deve prendere posizione di fronte alla consapevolezza della sua propria morte: «chi ha paura di morire, ha anche paura di vivere», fa dire D’Alatri a Giuseppe ne “I giardini dell’Eden”. E infatti, gli fa eco Fabrizio Moro, nella sua canzone “Pensa”, che dice: «in fondo questa vita non ha significato se hai paura di una bomba o di un fucile puntato»; e chissà se sapeva di richiamarsi alla Bibbia stessa… nella lettera agli Ebrei, quando al capitolo 2,15 si dice: «per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita».
E allora, poste queste note introduttive, proviamo a percorrerla questa drammatica che Giovanni inscena…
Come dicevo siamo ancora una volta posti nel marchingegno giovanneo che ci chiede di lasciarci tirar dentro nella scena stessa. Non si può infatti leggere questo autore (e in generale nessun vangelo) come se fossimo gli spettatori di uno spettacolo da cui alla fine possiamo/dobbiamo estrarre un in segmento morale o un connotato di Gesù, dedotto appunto dal suo agire. No! Giovanni ci chiede di andare anche noi sul palco e interagire nel dramma: perché chi è uno, lo si capisce solo vivendoci assieme, interagendo con lui…
Solo per questa via scopriremo dunque qual è l’identità di Gesù; solo così ci sarà talmente prossimo da plasmarci l’anima, proprio come fanno quelli che, nel bene e nel male, vivono con noi.
Salendo dunque sul palco… vediamo che il racconto è molto lungo, compaiono diversi personaggi e ci sono anche ambientazioni diverse.
Dopo un’introduzione in cui ci viene detto che Lazzaro, fratello di Marta e Maria, è ammalato, vediamo che Gesù risponde a questa notizia riecheggiando le parole che aveva detto a proposito del cieco nato; in quella situazione infatti Gesù aveva subito svincolato la menomazione fisica del cieco dal peccato e aveva invece immediatamente messo quell’uomo in relazione a Dio «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Anche qui avviene la stessa operazione di legare intimante l’identità ferita dell’uomo (malattia) con Dio: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio». Segue poi subito la notazione che Gesù amava molto questi suoi amici e quindi in un certo senso ci aspetteremmo una certa urgenza nel raggiungerli… Invece: «rimase ancora due giorni nel luogo in cui si trovava».
Tutto questo denota una certa tranquillità di Gesù, che certo non ha fretta di arrivare da Lazzaro.
Scopriamo poi che in effetti qualche problemino nel raggiungere l’amico c’era; e glielo ricordano i discepoli stessi: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ritorni là?»; forse anch’essi un po’ preoccupati per la loro sorte, come fanno trapelare le parole di Tommaso: «Andiamo anche noi a morire con lui».
Fatto sta che Gesù sembra affrontare la questione in modo del tutto sereno, tant’è che commenta quanto sta accadendo quasi con parole di gaudio: «Lazzaro è morto e godo per voi di non essere stato là, affinché crediate».
Lo stato d’animo di Gesù però quando giunge sul posto e vede, una alla volta, le due sorelle, sue amiche, inizia a cambiare. Entrambe infatti gli propongono la stessa dolce e struggente rimostranza: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto».
Queste parole, che da un lato mostrano la grande fiducia di queste donne nel loro amico Gesù, dall’altro però introducono quest’ultimo dentro alla drammatica di quanto accaduto… Gesù respira qui la pesantezza che trasuda dalla sofferenza del cuore materno di queste donne… lo respira e gli entra come dentro…
Tant’è che già con Marta, alla quale pure dice parole di grande speranza e ancora tenendo ben saldo il riferimento della sua posizione di fronte alla morte («Io sono la risurrezione e la vita»), usa però toni che si caricano sempre più di pathos. Finché il culmine arriva quando al sopraggiungere di Maria «Gesù […] fremette interiormente, si turbò, […] pianse».
È frastornante per noi leggere queste cose di Gesù, soprattutto perché, come si vede bene scorrendo le parole che precedono questa falla che si apre nei suoi occhi, lo abbiamo visto finora molto tranquillo, sicuro, sereno. Non ci aspetteremmo certo questa cosa; verrebbe da dire anzi: ma se sapeva che la malattia di Lazzaro «non è per la morte, ma per la gloria di Dio», che «Lazzaro si è addormentato ma» lui può «risvegliarlo»; se addirittura aveva detto ai discepoli che godeva «di non essere stato là» affinché essi credessero e a Marta che suo fratello sarebbe risorto… beh… che piange a fare ora?
Beh, piange, perché sebbene egli abbia indubbiamente un riferimento saldissimo a cui fare appello nell’attraversamento della drammaticità della vita («Padre, ti ringrazio di avermi ascoltato. Sapevo bene che tu sempre mi ascolti»), tuttavia non viene mai meno alla tragicità che essa introduce nelle viscere umane… tant’è che ancora una volta di lui è detto che fu «scosso da un fremito in se stesso».
È non saltando questa drammaticità che Gesù stesso impara a costruire un orizzonte di senso in cui collocare anche la morte. Non la banalizza, non la considera semplicemente superabile con un miracoletto, ma ne vive la tragicità, se ne lascia scarnificare… e così facendo, le trova una collocazione… una collocazione che, per lui come per ogni uomo, o è persuasiva o, alla prova della vita, non tiene… La sua collocazione invece terrà… tant’è che Gesù… appunto saprà morire, dare la sua vita, rimanendo saldo al suo riferimento convincente: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». È solo la fiducia nella Vita allora che colloca convincentemente la morte.

E mi piace poter mettere qui in conclusione uno stralcio di un lavoro di Carlo Molari intitolato “Esperienza personale di fede nella maturità. La vita spirituale e la maturità della fede”. Egli parla infatti de I criteri della morte:

«Le riflessioni antropologiche non possono essere compiute senza un serio confronto con la morte. La morte, infatti, non è un incidente, bensì il traguardo ultimo di ogni impresa vitale e quindi è il criterio supremo della vita: noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Partiamo da una metafora chiara. Il feto resta nel seno della madre finché diventa capace di venirne fuori in modo vitale. Per lui la nascita è la fine di uno stadio. Il che significa che tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine che lo attende. Ciò che favorisce la sua uscita dal seno materno è bene per lui. Ciò che, invece, la impedisce è male. Analogamente noi siamo in una situazione che è destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di finire bene è giusto, ciò che ci impedisce di morire bene è male per noi. Importante perciò è sapere che cosa la morte chiederà ad ogni uomo, perché egli sappia viverla.
La morte chiederà a tutti:

1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorrere ad altri riferimenti;
2) di avere imparato il distacco da tutte le cose;
3) di avere interiorizzato così gli altri da sapere partire senza tenere nessuno per mano;
4) di avere imparato ad amare in modo così oblativo, da sapere donare se stessi senza rimpianti;
5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla».

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