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venerdì 14 marzo 2008

Speranza in frammenti

La morte di monsignor Rahho, vescovo caldeo di Mosul, riporta al centro dell’attenzione la drammatica situazione dei cristiani in Iraq. Pochi mesi fa una catena di attentati ha colpito le chiese di quella provincia. L’estate scorsa un prete e alcuni diaconi erano stati uccisi. Nel 2005 anche il vescovo siriaco della città, Casmoussa, era stato rapito e poi rilasciato. Il tasso di violenza che regna nell’area è molto alto. Mosul è città contesa tra curdi, arabi sunniti e turcomanni, un conflitto sul quale si è innescata anche la “pulizia religiosa” condotta da gruppi islamisti che hanno approfittato delle tensioni etniche locali per colpire i cristiani. Geograficamente nel Kurdistan iracheno, Mosul è sotto controllo dei peshmerga: le forze speciali americane non effettuano operazioni antiterrorismo nell’area. Una concessione politica, prima ancora che militare, che gli Usa hanno fatto a uno storico alleato come i curdi. Una scelta che ha favorito l’arrivo nel Nord degli islamisti in fuga dalle province centrali, scacciati dagli americani e, soprattutto, dagli shawas, i membri delle milizie armate sunnite un tempo loro alleati. Senza alcuna tutela, in un clima in cui la polarizzazione tra sunniti e curdi per il controllo della città non lascia spazio a identità terze, i cristiani sono divenuti oggetto di crescente violenza. Molti hanno lasciato il Paese, alimentando l’imponente esodo iniziato dopo il 2003; altri, in una situazione in cui a tutti viene chiesto di schierarsi da una parte o dall’altra, hanno preferito convertirsi all’islam.
Una situazione che è anche il prodotto oggettivo della nuova politica americana in Iraq. Identificati cinque anni fa come il nemico, i sunniti sono ora tornati nelle grazie di Washington. Il timore per la crescente influenza iraniana sul paese, a larga maggioranza sciita, e la necessità di togliere agli jihadisti l’acqua in cui nuotano, hanno spinto Washington a rimescolare le carte. Il successo del generale Petraeus non è comprensibile senza mettere a fuoco il fenomeno della shawa, il risveglio sunnita. Ma se la politica di «riconciliazione nazionale» mette fine all’inconsulta epurazione di massa voluta dall’allora governatore Bremer, innesca anche un effetto domino che manda in fibrillazione i gruppi etnici e religiosi usciti vincitori dalla guerra. Il risveglio sunnita assume, infatti, anche il volto di ottantamila miliziani pagati dagli Stati Uniti. Si tratta degli stessi uomini che sino a un anno fa sparavano addosso ai marines e venivano chiamati terroristi, ribelli, insorti. In guerra, si sa, il fine giustifica i mezzi: e il nemico di ieri non è detto sia quello di oggi. Gli shawas sono inquadrati da leader radicati nel territorio e capaci di controllare parte rilevante della popolazione sunnita che, nel vuoto di potere lasciato dalla scomparsa del partito-stato, è tornata a guardare alle lealtà religiose, tribali, claniche. Entrati in conflitto aperto con gli jihadisti «stranieri», privi ormai di santuari in cui rifugiarsi, gli shawas stanno contribuendo in maniera determinante alla loro sconfitta: nonostante gli inevitabili colpi di coda del qaedismo. Il risveglio sunnita non è, però, privo di incognite. Genera tensioni a Mosul, città divenuta a maggioranza sunnita dopo la politica demografica voluta da Saddam ma rivendicata dai curdi; e inquieta gli sciiti. L’emblematica visita di Ahmadinejad a Baghdad è anche un messaggio rivolto dagli sciiti iracheni agli americani: tanto più punteranno sui sunniti, tanto più sarà necessario bilanciare il loro crescente peso volgendo lo sguardo verso i confratelli iraniani. A sua volta Teheran guarda alla svolta sunnita come all’ennesimo tassello di una politica che mette in discussione quel ruolo di potenza regionale che l’Iran ha assunto dopo la fine dei regimi ostili delle potenze laterali, l’Afghanistan e lo stesso Iraq. Ruolo destinato a crescere in futuro per effetto del ritiro americano e della corsa al nucleare. Gli iraniani, così come gli sciiti iracheni, sanno che il risveglio sunnita è ancora fragile; ma se questa fragilità venisse superata con la nascita di un «partito della shawa», incoraggiato da un sostegno politico, religioso e finanziario esterno, scatterebbero le contromisure. Tanto che non è esclusa la messa in campo di gruppi capaci di svolgere, con ben altra efficacia, il ruolo politico e militare esercitato in passato dall’Esercito del Mahdi. Formazione oggi in disarmo non certo a causa del soggiorno del suo leader a Qom, destinato formalmente a far acquisire a Moqtada al Sadr quel sapere teologico capace di conferirgli una legittimità religiosa sempre mancata; ma perché Teheran ha sin qui preferito mantenere il conflitto con gli americani allo stato di latenza. È possibile, dunque, che gli americani debbano fare fronte in futuro non tanto all’indebolita jihad qaedista ma a quella, ben più problematica, iraniana in versione di politica di potenza. Le dimissioni dell’ammiraglio Fallon, comandante delle forze militari americane in Iraq e Afghanistan, hanno a che fare anche con l’inevitabile sbocco della nuova politica Usa. Tutti i gruppi etnici e religiosi iracheni sono coinvolti, direttamente o indirettamente, nel puzzle creato dalla svolta sunnita di Washington. A loro spese lo hanno capito anche i cristiani. (14 marzo 2008)

Un'analisi della situazione in CorriereTV.it

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