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giovedì 29 maggio 2008

Fede o opere della Legge?

Le letture che la Chiesa ci propone per questa nona domenica del tempo ordinario hanno tutte come tematica di fondo la questione del rapporto tra la fede e le opere della legge. A che cosa va data la priorità? Quale può “garantire” la buona riuscita della vita (cristiana)? In sostanza: cosa dobbiamo fare?
Apparentemente le letture paiono dare sottolineature diverse, per cui il libro del Deuteronomio profila una benedizione o una maledizione determinata dall’obbedienza o meno «ai comandi del Signore, vostro Dio»; la lettera ai Romani suggerisce invece che «Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge»; e il Vangelo di Matteo infine che «Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia».
E dunque? Forse, per tentare di dire una parola in proposito è utile provare a contestualizzare i vari testi, a sviscerarli nel loro senso più pieno e, magari, scoprire che quella che in apparenza era una divergenza, in realtà nasconde una prospettiva unitaria.
Innanzi tutto va fatta emergere l’impressione immediata che queste letture danno, in modo da valutare se effettivamente essa abbia una consonanza col testo o se non sia piuttosto il frutto di una nostra mentalità distorta, che ha poco di evangelico e molto invece dell’arcaica religiosità della paura di dio…
Mi spiego… Leggendo Dt 11,26-28 («Vedete, io pongo oggi davanti a voi benedizione e maledizione: la benedizione, se obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; la maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio») istantaneamente (ed istintivamente) a noi viene da fare press’a poco questo ragionamento: il Signore Dio ha posto dei comandi a cui bisogna ubbidire; se lo faremo ci arriverà da lui, come conseguenza, una benedizione; altrimenti una maledizione…
Allo stesso modo per la Lettera di Paolo, quando leggiamo «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge», immediatamente ci viene da far riferimento a quell’atteggiamento molto devoto per il quale si ribadisce sempre che nessuno può considerarsi salvato, anche se è l’uomo più praticante dell’universo, perché questo non dipende certo dalle sue opere (che comunque – si dice – vanno fatte), ma dall’arbitrio di dio. È lui che comunque ha l’ultima parola e che giudicherà se nella “bilancia finale” il tutto sarà stato sufficiente.
E infine per il Vangelo, l’impressione suscitata da quel «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» è ancora una volta quella di pensare che è proprio legittimo prendersela con tutti quelli che hanno in bocca sempre “Signore, Signore”, ma poi non vengono ad aiutare in parrocchia, non sganciano l’offerta neanche a Natale, non partecipano alle nostre iniziative…
Ebbene, come anticipato, sono tutte letture distorcenti, nel senso che distorcono il testo per fargli dire quello che interessa a noi, in linea ovviamente con l’idea di dio che abbiamo in testa. Questo infatti è l’escamotage per mostrare la falsità di queste letture: fanno emergere un volto di Dio che non è quello che ci ha rivelato Gesù!
Dalle nostre letture immediate infatti emerge un dio pronto a maledire, quanto a benedire, a fare la somma finale dei meriti e dei demeriti, delle opere e delle devozioni; un dio di fronte al quale l’uomo deve strisciare come un verme, sperando in una salvezza, che dipende solo da un suo capriccio; un dio che non ascolta chi lo chiama “Signore, Signore”, se prima non si è capaci di presentargli l’attestato di buona condotta…
Questo tentativo di ricondurre le nostre impressioni nella lettura del testo biblico all’immagine di Dio che ne emerge e, soprattutto, alla sua consonanza col Dio di Gesù Cristo, è un dispositivo serio per verificare che Dio abbiamo in testa… se è Lui… o se siamo noi…
Scartate dunque, proprio per la loro estraneità al Padre che ci ha mostrato Gesù, le letture fatte finora, proviamo a riprendere in mano i testi, tenendoci in una consonanza più prossima con la teologia del NT, appunto con quell’idea di Dio che l’intero testo biblico e in particolare il NT fanno emergere.
Innanzi tutto per quanto riguarda Deuteronomio 11,26-28, è necessario far un cambio di mentalità (letteralmente una conversione, cum vertere) e pensare che non siamo di fronte a un dio che indifferentemente scaglia benedizioni o maledizioni, neanche in seguito a un calcolo dei meriti e dei demeriti; bensì di fronte alla saggezza di chi sta guidando un popolo e che paternamente pare dire: questa è la via della vita, questa invece, se la intraprenderete, vi porterà alla morte. Scegliete liberamente, ma sappiate cosa c’è in fondo al percorso. Non un castigo o un premio inflitto da dio, ma la fioritura o la distruzione di voi stessi, in base a cosa sceglierete (nel particolare, se fondare la vita sul niente – gli idoli – o su Dio – colui che vuole che l’uomo sia).
Allo stesso modo in Paolo va rilevata l’esplosione della creatività dello Spirito (non le solite cose che si sentono sempre e che non con-vincono nessuno): egli infatti rompe quello che era un luogo comune classico (anche cristiano) per cui «Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,6); «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10); tant'è che Giacomo dice (2,14): «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? […] La fede: se non ha le opere, è morta in se stessa». Paolo invece dice proprio il contrario: «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge»!
Bisogna che troviamo un’intelligenza di questa divergenza. Certo non la soluzione che davamo prima: Paolo è proprio tutto il contrario del “devotone” che starebbe qui sottolineando, al di là delle opere, il primato dell’arbitrio divino! Qui Paolo sta dicendo tutt’altro, e cioè che non c’è nessuna pratica religiosa che può sostituire l’affidamento al Padre, il credito all’annuncio lieto del Vangelo, la relazione personalissima tra lo spirito dell’uomo e lo Spirito di Dio. È questo rapporto che deve mostrarsi come il senso della legge (e non viceversa!): a costo di relativizzare la legge! Se infatti l’obbedienza alla legge diventa – a torto o a ragione – un ostacolo all’accoglimento fiducioso di questa relazione, essa va trasgredita! E infatti Paolo litigherà con Pietro per affermare la non necessità per un cristiano della circoncisione; dichiarerà addirittura, sulla questione se mangiare o meno la carne sacrificata agli idoli: «Tutto è lecito!» (1Cor 10,23), e via discorrendo…
Si inizia già, credo, a intravedere quali saranno le conseguenze del nostro ragionare e le risposte alle domande che abbiamo posto all’inizio… ma non prima di prendere in mano anche il vangelo.
Matteo fa dire a Gesù: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. […] Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. […] Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia».
La prima cosa da ricordare è di evitare di identificare immediatamente «regno dei cieli» con “paradiso”. Qui infatti Gesù non sta parlando del post mortem, ma del mondo dei vivi! Il problema infatti è quello della consistenza della vita (che pur non essendo slegato da quello sul post mortem, non può esservi ridotto). Ed è interessante che anche le immagini usate da Gesù facciano riferimento alla consistenza, alla solidità, alla saldezza. Il punto cruciale infatti è: cosa è fondante? Cosa dà consistenza alla vita? Cosa la determina come buona?
Il punto di vista del Vangelo non è quello per cui il problema sarebbe il dire “Signore, Signore” (quasi che il Signore volesse solo una banda di faticatori indefessi, di recitatori di rosari ad libitum, o simili), ma il fatto che quel “Signore, Signore” sia solo flatus vocis, pura inconsistenza, suono vuoto: questo è il problema! Lo stesso che è in gioco in tutte le nostre letture: la consistenza della relazione, del rapporto al Signore.
È questo il discriminante fondamentale: è a partire da esso infatti che possiamo anche dare un giudizio sulle opere e sulle parole. Come non ha senso infatti un “Signore, Signore” effimero, di convenienza, scialbo, allo stesso modo non c’è opera che possa sostituire la centralità del nostro riferirci al Signore: se non c’è Lui nel nostro cuore, quello che facciamo “per Lui” è falso, meschino, interessato.
In entrambi i casi “fede” e “opere” sono svuotate della loro consistenza perché l’una diventa semplice dichiarazione non impegnativa, non coinvolgente il nucleo centrale di noi stessi (come il primo figlio della parabola di Mt 21,28-31: «Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò») e le altre si riducono a mera precettistica, senza la minima incidenza sulla vita («Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei: […] Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente. […] Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume», Mt 23,2.5-7.27).
Che risposta dare allora alle nostre domande iniziali (A che cosa va data la priorità, alla fede o alle opere della legge? Cosa può “garantire” la buona riuscita della vita (cristiana)? In sostanza: cosa dobbiamo fare?)?
Il rapporto corretto tra la fede e le opere è quello in cui entrambe sono considerate nel loro senso forte: la fede come il decidersi della nostra libertà perché il Dio di Gesù Cristo sia il Signore della nostra vita; e le opere come implicazione necessaria nell’amore che sgorga da questa relazione, come una mamma che accudisce suo figlio perché lo ama e non perché la legge la obbliga fino al compimento del diciottesimo anno d’età!

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