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giovedì 22 maggio 2008

Santissimo corpo e sangue di Cristo: la dedizione di Dio

«Nell’atto di dare vita risplende sempre immediatamente il fondamento: nel generare e nel nutrire, nel far vedere cose belle e nel far ascoltare notizie buone, nella cura e nella guarigione, nella risurrezione e nel perdono. […] Questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione» (Sequeri).
Quella proposta dal teologo, è la medesima evidenza che i testi offerti dalla Chiesa per questa festa del Corpus Domini ribadiscono: il volto del Dio cristiano è, inequivocabilmente, dedizione!
Le letture infatti ci accompagnano in un percorso che da Mosè a Gesù, dal popolo ebraico alla Chiesa, dall’uomo di ieri all’uomo di oggi, ci mostra l’apparire di questa evidenza e la faticosa e magmatica storia con cui gli uomini l’hanno dipanata, riconosciuta come persuasiva, scelta come affidabile.
Infatti il capitolo 8 del libro del Deuteronomio, che andrebbe letto per intero, si colloca all’interno del discorso che Mosè, prima di morire, fa al popolo, che ormai sta per entrare nella Terra Promessa. Tutti i capitoli precedenti sono una sorta di riepilogo del cammino percorso fino a quel momento nel deserto; cammino da ricordare («Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto»), proprio perché luogo dell’apparire della dedizione di Dio, come suo univoco volto: «ti ha nutrito di manna. […] Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni».
Eppure, per arrivare a questa evidenza, serve che si proceda con qualche passo intermedio, perché l’impalcatura del brano, con la sua sinuosa articolazione, ci chiede di evitare facili liofilizzazioni del suo messaggio e quindi, al contrario, di fare la fatica di percorrerlo. Infatti è solo “dal di dentro” della narrazione che, ciò che viene interpellata, è la nostra libertà (e non solo il nostro intelletto o il nostro “buon costume”); è solo da lì che il testo biblico (la parola di Dio!) chiama in causa il nostro deciderci-per! Qualsiasi altro approccio infatti, che non contempli il coinvolgersi vitale nella vicenda narrata, ha sempre in sé il rischio di ridurre la Sacra Scrittura a “manuale dei buoni consigli”.
E di fatti immediatamente ci accorgiamo che insieme alle parole inequivoche della cura, ce ne sono altre («Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») di cui bisogna rendere ragione; di cui bisogna rendere ragione, tra l’altro, evitando di rimettere in discussione il fondamento come univocamente buono: dopo Gesù infatti non si possono più sfruttare argomentazioni del tipo «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (Gb 2,10), perché da Dio non viene il male, neanche per educarci! E quindi non si può più, dopo Gesù, leggere le frasi apparentemente problematiche della prima lettura («per umiliarti e metterti alla prova»; «ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame»; «come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») come se Dio infliggesse “a freddo” umiliazioni, prove, stenti per un bene più grande! Ancora Sequeri, afferma: «Si tratta di togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio: neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza». E se invece, leggendo le espressioni che paiono rimandare a un infliggere il male all’uomo da parte di Dio, a noi viene il dubbio su Dio, sull’ambiguità del suo volto, dobbiamo ricordarci che quello lì che ci viene in mente non è dio! Forse ce lo hanno anche messo in testa così… ma non è Lui!
Come rendere allora ragione di queste frasi che paiono suonare male?
Anzitutto, mai de-contestualizzarle, sia culturalmente (sono espressioni linguistiche di un tempo storico ben determinato, così come di un luogo geografico e di società specifici), sia letterariamente (sono contenute nello svolgersi di un discorso, che ha le sue finalità, le sue ragioni, le sue regole stilistiche…). Questo, certo, non esaurisce la loro carica problematica, ma se non altro la colloca.
Serve comunque qualcosa di più per renderne ragione. E ciò che manca è infatti l’intelligenza del brano: ossia, cosa significano, nel loro contesto, l’umiliare, il mettere alla prova, il far provare la fame, il correggere?
Una chiave di lettura la si può trovare in tre punti particolari del testo, che ne segnano anche i passaggi fondamentali: «per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi»; «per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore»; e una volta entrato nella Terra Promessa, «guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do; […] il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da […] pensare: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”».
L’intelligenza del racconto è cioè quella per cui il deserto, non tanto come luogo geografico, ma come luogo esistenziale dell’umiliazione, della prova, della fame, della necessità di revisione, ecc, è lo spazio dove l’uomo si ritrova messo in discussione. Questo deserto, che tutti nella vita sperimentiamo (ognuno il suo, personalissimo) è fenomenologicamente presente nell’esistenza umana, c’è, ce lo ritroviamo dentro; e il nostro testo non dà ragione del perché; parte anzi dal dato di fatto di trovarcisi in mezzo! La sua preoccupazione infatti è un’altra: quella di mostrare come questo ritrovarsi messi in discussione (dal dolore, dalla morte, dalla malattia, dalla sofferenza, dalla noia…) non debba diventare il luogo della messa in discussione di Dio. Il male che ci circonda, cioè, non deve arrivare a inficiare nel nostro cuore la relazione con quel Dio dal volto univocamente caratterizzato dalla tenerezza per l’uomo, dalla passione, dalla dedizione. Questo volto, che solo ci con-vince in un deciderci per Lui, non deve essere guardato con sospetto di fronte al male che sperimentiamo (“Se mi succede questa cosa, allora vuol dire che dio ce l’ha con me”; “Cosa ho fatto perché dio mi mandasse questa pena”…)!
Anzi, la prova è proprio il luogo del ri-professarlo affidabile, dalla nostra parte, solidale con noi nel dolore, nella fatica, nella morte del cuore. In questo senso il deserto mostra «quello che avevi nel cuore»: mostra infatti che faccia di Dio avevi conosciuto, se quella “doppia”, a cui attribuire il bene e il male dell’uomo, o quella univoca, del bene per l’uomo, che resta indiscussa anche di fronte alla realtà del male, perché essa non viene da Lui, ma è vivibile con Lui: «l'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore»! Il deserto perciò non solo non dev’essere il luogo della messa in discussione di Dio, ma anzi deve diventare lo spazio per riconoscerlo l’unico fondamento stabile, l’unico in cui l’uomo può trovare un accudimento convincente per la vita, nei suoi momenti oscuri e nei suoi momenti luminosi.
E di fatti il testo mostra anche il rovescio della medaglia: il tempo della prosperità! Anch’esso rivela che Dio hai in testa (in cuore): se quello che è comunque dalla parte dell’uomo, o se quello da ingraziarsi nel male e da dimenticare nel bene! Perché come scriveva santa Chiara a Ermentrude: «sopporta volentieri i mali avversi e i beni prosperi non ti esaltino: questi, infatti, richiedono la fede, e quelli la esigono».
In questo senso è interessante anche il fatto che nemmeno un certo pensare religioso è esente da questo meccanismo teologico perverso. Lo fa all’incontrario, ma ha lo stesso errore alla radice: quello di chi pare dire “Quando c’è qualcosa che non va nella mia vita è colpa mia, quando c’è qualcosa che va bene è merito di dio…”.
È la medesima prospettiva, anche se rovesciata, della problematica che mette in luce il nostro brano. Ma proprio perché ne è la visione reciproca ne importa anche il difetto: la doppiezza di dio, la sua ambiguità, il suo alternativamente far paura e ricompensare, infliggere e insegnare, mettere alla prova e premiare…
La prospettiva del Dio cristiano invece è radicalmente un'altra, nel senso che cambia fin nella radice questa impostazione, che Gesù stesso definitivamente taccia come improponibile!
Con Lui infatti l’evidenza dell’univocità della dedizione di Dio per l’uomo (da Dio ci viene solo il bene!) si fa definitiva: non solo Dio ci dà da mangiare, ma “ci si dà da mangiare”: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni ha, a detta degli studiosi, il valore che nei sinottici hanno i racconti dell’Ultima cena, della quale infatti Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. Siamo dunque in presenza di un testo eucaristico!
«Ecco questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione. La differenza è affidata alla libertà. […] Dio è in attesa della decisione dell’uomo: quella cioè di assumersi la responsabilità della parte potenzialmente prevaricatrice che esiste in ogni atto di generazione, in ogni impresa della conoscenza, in ogni esercizio del desiderio, in ogni iniziativa della relazione che mira a stabilire un legame d’amore» (Sequeri). Questa è la vita eucaristica, evangelica, cristica: quella della «disponibilità all’esercizio della libertà a imitazione e somiglianza di Dio: che decide di sottrarre l’energia vitale dell’essere alla sua deriva verso il principio del dominio per convertirla all’indirizzo della dedizione».

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