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giovedì 15 maggio 2008

Santissima Trinità: l'affidabilità di Dio

Per introdurci nel nucleo di senso della festa che la Chiesa celebra in questa domenica, quella della Santissima Trinità, è fondamentale collocare nel suo contesto la prima lettura che la liturgia ci propone: i versetti che la compongono infatti (Es 34,4-6.8-9) sono l’ultima parte di una sezione ben più ampia (Es 32,1-34,35) che inizia con la fabbricazione del vitello d’oro.
Già questa annotazione fa intuire come il senso della collocazione di questo brano nella liturgia della parola della festa della Santissima Trinità, abbia il senso di spingere la riflessione sulla questione dell’identità di Dio: chi è il Dio vero? Chi è Dio?
E di fatti dire di Dio che è Trinità per i cristiani è dirne l’identità vera…
Ma procediamo con calma… soprattutto per evitare che gli echi estrinsecistici del parlare di Dio del catechismo ci fuorviino. La risposta corretta infatti è certamente che l’identità vera di Dio sia il suo essere uno e trino, ma al di là della formulazione dottrinale, il problema sta nel tentare di indagare cosa questo voglia dire.
L’incipit del brano di Esodo (32,1) mostra immediatamente il problema: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”».
Il monte su cui Mosè, a detta del popolo, si sta attardando è chiaramente il Sinai. Qui egli sta stringendo con Dio per il suo popolo l’alleanza, suggellata dal dono delle tavole della legge; infatti il versetto che immediatamente precede quello appena citato è il seguente: «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Es 31,18).
Dato il contesto, ciò che è desolatamente disarmante è questa assoluta nonchalance con la quale il popolo chiede esplicitamente ad Aronne di fargli un dio: fatti da mano d’uomo infatti sono solo gli idoli, i falsi dei, quelli che secondo il profeta Baruc 6,50 «sono una menzogna; […] non sono dèi, ma lavoro delle mani d'uomo, privi di ogni qualità divina» e che proprio per questo a detta del Salmo 114,5-7 «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni».
La situazione appare dunque paradossale: mentre Dio sta stringendo col suo popolo per mezzo di Mosè sul Sinai la loro alleanza, lo stesso popolo chiede di farsi un altro dio, un dio finto; il tutto, tra l’altro, non in una situazione di totale inesperienza di Dio, bensì a liberazione avvenuta, a mirabilia Dei già mostrati: ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto!
Com’è possibile che il popolo sia arrivato a questo punto? Com’è possibile da un lato mettere in discussione Dio, il Dio conosciuto, il Dio con cui si ha già un rapporto, una storia, fatta di parole e segni, cura e protezione…? E com’è possibile dall’altro che su tutto questo prevalga la necessità di farsi un dio, un dio a misura di uomo, un dio che si può toccare, vedere, sul quale si possono cioè mettere le mani, sul quale si possono mettere gli occhi?
Stando alla Bibbia… dovremmo, dal nostro punto di vista, però, fare un po’ meno gli scandalizzati…
Già nelle sue prime pagine infatti essa ci rivela come questo sguardo ambiguo su Dio, questo metterlo in discussione, e insieme questa necessità di renderlo toccabile, visibile, contenibile, abbiano accompagnato l’uomo da sempre… anzi caratterizzano l’uomo di sempre… e dunque anche noi.
Gn 3 manifesta infatti che – come mostra in modo eccellente P.A.Sequeri ne Il timore di Dio, 53 - «il rapporto religioso con Dio si è inquinato, senza ragione e sin dall’inizio, tramite il credito che l’uomo ha concesso alla fantasia del serpente. E da allora ogni religione ne rimane inesorabilmente segnata, perché l’uomo viene alla luce in un mondo che ogni volta gli ripropone il sospetto al quale è sin troppo disposto a cedere: il sospetto cioè che il comandamento, invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione».
Ecco l’arcaico sospetto su Dio che ci portiamo dentro, che ci “trasmettono” quando nasciamo e che in qualche modo rilanciamo quando moriamo: che il suo volto sia ambiguo, che da lui – come ogni religione ha sempre pensato del suo/suoi dio/dei – ci possa venire tanto il bene, quanto il male. E a partire da questa atavica paura ecco tutti i tentativi di ingraziarsi dio/gli dei: prima in modi decisamente più triviali (i sacrifici, anche umani), poi in modi sempre più raffinati, ma non certo meno depravati (le preghiere, i fioretti…). Ma non solo… oltre ai tentativi di propiziarsi il divino, il sospetto che da esso potesse venirci tanto il bene quanto il male, ha determinato un’altra rovinosa conseguenza: il fatto che il pensiero si scatenasse in elaboratissime teorie per salvaguardare comunque il rispetto della divinità: e così sono nate le dottrine per cui se da dio ti viene il male, lo fa per motivi pedagogici, per darti cioè un insegnamento morale, un’edificazione spirituale; oppure le dottrine per cui dio infligge il male, ma per un bene maggiore… e via discorrendo su questo canovaccio…
Che non sono altro che i tentativi a posteriori di difendere dio nelle sue implicazioni col male: dando però come presupposto appunto che col male egli sia immischiato… che è l’anti-Vangelo.
Il punto infatti è che come scrive ancora Sequeri «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». È quello che dicevamo anche per il popolo: nella concretezza il rapporto che avevano instaurato con Dio aveva parlato solo di liberazione, protezione, cura… «Lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre nell’immaginazione: non nell’esperienza».
Eppure: «Una volta che è stato portato alla luce, questo sospetto non ci abbandona più. Ogni uomo, almeno una volta, sperimenta il sentimento della possibile ambiguità di Dio».
Questa incredulità “cronica” è una dinamica antropologica che stupisce perfino Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,13). Anch’egli infatti sperimenta la crescente resistenza di fronte al suo annuncio, tant’è che diventa pretestuosa ogni cosa «persino la guarigione di un paralitico nel giorno sacro, o la restituzione di un amico morto all’affetto dei suoi cari».
«Ma la coscienza di Gesù appare folgorata dall’intenzione di attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano». Ecco la buona notizia di Gesù: che da Dio viene solo il bene per l’uomo! Che nessun uomo sulla faccia della terra deve inerpicarsi nell’avventura impossibile di salvarsi la vita («Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?», Lc 12,25), ma che essa è già amata, ben-voluta, salvata!
Non a caso infatti il Vangelo che la liturgia ci offre in questa festa, in cui siamo invitati in qualche modo a “sbirciare” nell’identità di Dio, proclama: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Ecco il nocciolo radicale dove dobbiamo porre la nostra conversione!
Per farlo però bisogna ancora rendere ragione di due questioni:
1- Se da Dio ci viene solo il bene, come va inteso il “castigo” raccontato in Gn 3, che è uno dei testi che abbiam preso come riferimento?
2- Perché è così importante non sbagliare l’identità di Dio? Addirittura porre qui la nostra conversione (piuttosto che sul sesso, sulla politica, sui soldi)?
1- è ancora Sequeri a venirci in soccorso: «Da molti indizi comprendiamo quale attaccamento alla propria creatura percorra come un filo incandescente e luminoso la reazione di Dio: […] l’uomo e la donna non muoiono. […] La maledizione invece è per il serpente: […] una clamorosa e appassionata riconferma della superiore dignità della donna e della stirpe di lei (Gn 3,15). [Infatti] Dopo aver sperimentato la differenza della verità di Dio e dell’immagine del serpente, l’uomo si sente vergognosamente solidale col serpente. Dio ristabilisce la differenza, ponendo inimicizia fra il serpente e la donna. E l’ultima parola rimane all’uomo: e alla vittoria della sua specie su quella del maligno. Così d’un sol tratto, Dio ripristina la differenza di sé e della sua immagine creata: rispetto alla fantasia del serpente a riguardo di entrambi. L’immagine di Dio rimane quella della dedizione. La natura dell’uomo quella della comunione. […] L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde il serpente con l’uomo». Ecco il senso dei gesti di Dio riportati sul finale di Gn 3: l’inimicizia tra il serpente e la donna (la non confusione da parte di Dio del serpente con l’uomo), la fabbricazione delle tuniche di pelli per l’uomo e la donna (la dedizione di Dio per l’uomo), l’allontanamento dal giardino (la distanza tra Dio e immagine di lui che ne ha dato il serpente). Quanto ai dolori del parto, la fatica nel lavoro, ecc… sono «la percezione della incolmabile distanza che esiste fra la condizione limitata dell’uomo e la promessa iscritta nella creazione». L’uomo non è Dio! E tuttavia questo riconoscimento non è mortificante, ma vitale. L’uomo non è Dio, ma è uomo. E questa è la sua dignità. La sua personalissima destinazione!
2- Destinazione che può cogliere nella sua verità e trasparenza solo se colloca bene Dio: «è da ciò che l’uomo crede di Dio che dipendono il senso della vita e della morte sulla terra». Infatti l’uomo che dà credito all’ipotesi formulata dal serpente «impara la paura e coltiva l’istinto di proteggersi da Dio. […] La cosa non gli rende la vita più facile. Ma ogni volta gli offre anche pretesti per la propria voglia di prevaricazione». E non esiste peccato peggiore, dirà Gesù, chiamandolo il peccato contro lo Spirito santo; il peccato contro colui che conosce i segreti di Dio («Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio», 1Cor 2,11): infatti «chiunque insegna ai bambini a scandalizzarsi di Dio, farebbe meglio a legarsi una macina da mulino al collo e gettarsi in acqua. Il peccato contro lo Spirito, che impugna l’attendibilità del sentimento di Dio come padre, chiude ogni varco per la relazione che tiene in vita la speranza dell’uomo».
Ed ecco ritrovata la nostra Trinità, la verità dell’uno e trino Signore: la sua affidabilità, che sola abilità la nostra fraternità, perché solo una vita che non ha bisogno di salvarsi la pelle, può guardare all’altro non come ad un rivale, ma come ad un fratello!

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