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venerdì 7 novembre 2008

Nella festa delle “mura” di una chiesa, l'invito ad adorare il Padre in spirito e verità

In quella che, seguendo il calendario liturgico, sarebbe la trentaduesima domenica del tempo ordinario, quest’anno cade il 9 novembre, festa della Dedicazione della Basilica Lateranense. È la festa della cattedrale di Roma, della chiesa cioè nella quale vi è la cattedra del vescovo della città, il papa.
Perché allora questa ricorrenza è celebrata dalla chiesa universale e non solo da quella di Roma? Perché San Giovanni in Laterano è considerata, in un certo senso – dice il Messale – la madre di tutte le chiese. Essa infatti è la prima chiesa di cui si ricordi la consacrazione, avvenuta nel IV secolo, dopo che fu costruita per volontà dell’imperatore Costantino, al tempo di papa Silvestro I.
L’origine storica della festa sarebbe perciò la consacrazione dell’edificio della Basilica Lateranense. Già questo lascia un po’ perplessi... sembra una motivazione un po’ sottotono rispetto a quelle di tante altre feste cristiane. Soprattutto se notiamo che questa festa ha addirittura un’importanza tale da scalzare la celebrazione della Pasqua del Signore (la domenica), che – liturgicamente parlando – è un fatto raro.

Ma non è tutto... perché oltre a essere origine della festa in questione, la consacrazione di questa Basilica, sarebbe addirittura – stando al Messale romano – il motivo che rende San Giovanni in Laterano, madre di tutte le chiese... Fortunatamente tutti sanno che se Roma è considerata madre di tutte le altre chiese, lo è per altri motivi; ma soprattutto tutti sanno che propriamente non è un titolo che le spetta: madre di tutte le altre chiese è infatti Gerusalemme! Quello infatti è il luogo sorgivo della vita cristiana! È Gerusalemme infatti la città in cui Gesù muore, risorge, dona agli Apostoli il suo Spirito, abilitandoli così alla predicazione che porterà alla nascita della prima comunità cristiana (cfr At 1-5) e via via di tutte le altre!
Queste considerazioni non vanno lette nel senso di una presa di posizione nella presunta (che però storicamente si è data) rivalità tra Roma e Gerusalemme; esse non vogliono nemmeno avere il tono di asserzioni polemiche nei confronti del ruolo della chiesa di Roma e del suo vescovo all’interno della chiesa tutta; neanche infine vogliono screditare la celebrazione di una festa tanto antica.
Semplicemente in questione è posta una problematica che nasce dalla lettura stessa dei testi proposti dalla liturgia per questa ricorrenza.
Ciò che colpisce infatti, anche solo leggendoli rapidamente, è quella che pare una loro inadeguatezza, per l’occasione. Non nel senso che i testi biblici scelti non siano all’altezza dell’occasione (ovviamente!), ma nel senso che paiono fuori luogo... Infatti nella festa delle “mura” di una chiesa (infatti pur con tutto l’ampliamento di significato possibile, in questa festa si celebra la consacrazione dell’edificio di San Giovanni in Laterano!), le letture propongono una prospettiva opposta: ricordano infatti quanto il Dio di Israele sia incontenibile nelle mura del Tempio («Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!») e quanto il Dio Padre di Gesù non sia da adorare in un luogo fisico, ma piuttosto «in spirito e verità»!
Ma non è tutto, perché questa apparente (o reale?) contraddittorietà porta a un’ulteriore riflessione: essa infatti manifesta una dinamica, interna alla Chiesa, ben più profonda della semplice curiosità che suscitano questi “testi fuori luogo”...
Se infatti dobbiamo ritenere che è la stessa mens liturgica della Chiesa che invita a celebrare questa festa e che contemporaneamente ne propone i testi, è chiaro che la duplicità di prospettiva non è solo testuale (e dunque occasionale), ma strutturale. È la Chiesa stessa ad avere in sé una duplice visione sulla festa in questione! Anzi, allargando lo sguardo, una duplice visione anche su tutto lo stile liturgico, addirittura sul senso stesso della liturgia. Inoltre, dato che dietro ad ogni liturgia sta una teologia, anche la prospettiva teologica (l’idea di Dio!) incontra almeno una duplice impostazione. Infine e radicalmente, dato che dietro ad ogni teologia c’è un modo di leggere il vangelo, è proprio qui che si insinua l’origine della diversità di sensibilità.
Qui, per forza di cose, non si può che tratteggiare solo molto schematicamente (e dunque anche riduttivamente) una descrizione di questi due orientamenti, anche se chi vive anche solo un po’ la vita della Chiesa, avrà subito ben chiaro ciò a cui ci si riferisce:
- per un verso c’è la linea che ama chiamarsi profetica o evangelica o Chiesa dei poveri, visibile soprattutto nelle comunità di base, che in Italia oggi vede sostanzialmente identificare la sua guida nel card. Martini;
- per l’altro c’è quella più legata all’istituzione, al Magistero, ai compromessi che dicono necessari con il potere politico (Concordati), visibile soprattutto nelle celebrazioni pontificie (liturgiche e non), che in Italia ha probabilmente visto per decenni il suo punto di riferimento nel card. Ruini.
Negare che la storia odierna ci fornisca questo dato fenomenologico solo per paura di divisioni è da sciocchi o da affetti dalla sindrome degli struzzi. Molto più serio pare invece non nascondersi dietro ad un dito e assumere questo elemento, proprio per evitare che, se ignorato, porti a conseguenze faziose e divisorie. Affrontare con serietà la questione invece è l’unico modo per costruire vie di comunicabilità e convivenza fraterna.
La prima osservazione che può far calare la concitazione è ovviamente quella di chi si rende conto che sostanzialmente il problema non è nuovo, anzi accompagna la Chiesa dal suo sorgere: non a caso infatti entrambe queste linee sono fondate sul vangelo e trovano sempre rispettivamente passi evangelici con cui sostenere le proprie posizioni.
La seconda è che, al di là di ogni retorica e fatti salvi gli estremismi, esse sono davvero con-necessarie alla vita della Chiesa: ogni profezia si sedimenta in un’istituzione e ogni istituzione ha bisogno della profezia per non morire o – peggio – tradire la Spirito che l’ha originata.
E dunque?
Dunque ringraziamo il liturgista, che senza celare un po’ di ironia, ci invita a celebrare questa festa “conservatrice” con dei testi biblici cari agli “innovatori”!
Essi, finora troppo tralasciati, meritano a questo punto qualche parola...
La prima lettura, tratta dal Libro dei Re, narra della preghiera del re Salomone. È lui il primo ad aver costruito il Tempio di Gerusalemme. Dio infatti non lo aveva permesso a Davide, suo padre, che aveva invece espresso tale proposito: «Vedi – aveva detto al profeta Natan – io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto una tenda». Dio però aveva fatto sapere a Davide per mezzo di Natan: «Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? [...] Io fisserò un luogo a Israele mio popolo e ve lo pianterò perché abiti in casa sua. [...] Te poi il Signore farà grande perché una casa farà a te il Signore. [La discendenza uscita dalle tue viscere] edificherà una casa al mio nome».
Salomone è quella discendenza! Egli infatti porta a termine la costruzione del Tempio. E le parole che la prima lettura ci offre sono proprio quelle che pronuncia nel momento più solenne della celebrazione dell’inaugurazione. Sono parole in cui è evidente che il re ha ben chiara una cosa: Dio è incontenibile in quelle mura, Dio è Altro... Infatti ogni volta che è contenuto da pareti, da formulazioni concettuali, da norme morali, da itinerari spirituali... beh... non è Dio!
Anche la seconda lettura, scelta, nella festa della consacrazione delle mura di una chiesa, per il ricorrere del termine “pietre”, ha la stessa prospettiva: mette in luce infatti come le uniche costruzioni sensate della storia siano gli edifici spirituali, gli uomini “cristicizzati”!
E il vangelo non è da meno... esso, uno stralcio del bellissimo discorso tra Gesù e la Samaritana, è l’esplosione definitiva della fine del ritualismo (non del rito), del liturgismo (non della liturgia), del possesso esclusivo della mediazione (non del reale ruolo di possibile mediazione storica) tra Dio e l’uomo.
Sostanzialmente quello che qui crolla con Gesù è la convinzione religiosa che per un rapporto autentico tra l’uomo e il suo Signore, sia necessario uno spazio sacro fisico, una strutturazione rituale obbligatoriamente uniformata e univoca, una modalità liturgica standardizzata: come se uno potesse incontrare Dio solo in una chiesa cattolica, ripetendo formule specifiche e assistendo a celebrazioni che lo annoverano come uno dei tanti...
Interessante dunque che nel momento in cui la Chiesa celebra la festa della consacrazione delle “mura” di una chiesa, la Chiesa stessa nel vangelo domenicale proclami: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. [...] È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità».

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