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venerdì 28 novembre 2008

L'uomo è il destino

In questa prima domenica di Avvento, il primo brano con cui la liturgia della Parola ci chiama a confrontarci è tratto dal libro del profeta Isaia: esso ci invita a riflettere sulla storia di Israele. La Bibbia di Gerusalemme infatti intitola la sezione in cui è contenuto questo testo (Is 63,7-64,11) “Meditazione sulla storia di Israele”.
Nel ripercorrerla però ci si accorge immediatamente come essa trasbordi rispetto a Israele stesso e sia emblematica non solo per la storia di quel popolo, ma addirittura per la storia dell’umanità tutta e in essa di ciascun uomo.

Isaia infatti fa fare questo percorso al lettore:

gli ricorda i benefici del Signore («Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi», v.7), la sua fiducia nelle sue creature («Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno», v.8); e nonostante questo la loro ribellione («Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito», v. 10); di fronte però all’inimicizia col Signore esse «si ricordarono dei giorni antichi» e iniziarono a porGli domande sulla sua lontananza: «Dov’è colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge? [...] Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? [...] Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?» (63,11-17); fino ad arrivare all’invocazione del suo ritorno: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (64,2) e alla fatidica domanda: «Resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?» (64,11).

Percorso, che, tradotto in termini che travalicano i confini israelitici, potrebbe suonare in questo modo:

l’origine umana (la nascita di ciascuno) ha in sé inequivocabilmente una promessa. Al di là di come si arrivi a nascere e anche nelle condizioni peggiori in cui lo si possa fare, già l’esserci, il venire al mondo è portatore di questo nucleo esplosivo promettente Vita (per lui che nasce e per il mondo intero). Ma altrettanto inevitabilmente questa promessa si adombra, questa luce si oscura, questa speranza si rabbuia, questa vita si ferisce, questa libertà si fa del male, questa storia si arena... Ed ecco le domande che ogni uomo, che ha attraversato questa storia con anche solo un briciolo di consapevolezza, si pone: Dov’è la promessa che mi hanno fatto mettendomi al mondo? È questa la vita? Citando Vasco Rossi: «Questa felicità, dov’è?»... Che senso ha tutto questo? Fino alla disperazione di alcuni, alla fuga nella superstizione (che è sempre religiosa!) di altri, all’attesa di salvezza dei rimanenti che lascia trapelare un “Fino a quando ci toccherà patire?”.

Ma perché a Israele è successo questo? Perché pare succedere ad ogni generazione con cui l’umanità tenta di rinnovarsi? Perché succede a noi?
La svolta sembra concentrarsi tutta in quel «si ribellarono»: un ribellarsi che biblicamente per Israele ha come referente Dio, e, nella nostra “traduzione” esistenziale, la promessa iscritta nella vita (che cristianamente parlando è ancora Dio, il suo vangelo: la buona notizia di Dio sulla vita dell’uomo).
Eppure questo termine “ribellione” in noi non risuona solo con echi negativi: il piccolo contestatore che c’è in ognuno di noi infatti identifica in esso tutta la sua possibilità di libertà, la sua possibilità di essere contro il sistema costituito, di potersi dire come “Io” e non come chiunque! Non a caso anche pedagogicamente parlando, è solo nell’opposizione a ciò che è altro da me che divento “Io”: avviene con i genitori nell’infanzia, con le autorità nell’adolescenza, con l’omologazione nell’età adulta...
Riteniamo dunque giusto affermare la nostra identità – perché senza di essa non solo non saremmo noi stessi, ma semplicemente non saremmo – contro tutto e tutti, se necessario anche contro “Dio”...
Forse però in modo un po’ meno perentorio saremmo disposti ad affermare la nostra identità contro tutto e tutti, se necessario anche contro “la promessa di Vita iscritta nella nostra vita”... Se lo facessimo infatti cadremmo ipso facto in contraddizione... Come si può infatti per essere sé stessi – dunque per vivere – ribellarsi contro la Vita stessa?
Per chiarire meglio il ragionamento urge forse porre qualche chiarificazione capace di mettere un po’ in ordine i pensieri:
- Siamo partititi dicendo che ci si ribella per essere, per esser-ci; ci si ribella dunque da tutto ciò che pare impedirlo (cfr genitori-professori per un adolescente...), che pare impedire la vita;
- In questo senso spesso ci si ribella anche contro Dio, contro colui che percepiamo (o che ci hanno insegnato) essere un despota, colui che vuole dirigere la nostra vita (che ha scritto un progetto per noi, che sa già cosa faremo domani...), o anche solo colui che mi vuol per forza far fare il bene e per farlo mi ricatta col suo inferno...
Giusto dunque sottoscrivere l’affermazione della nostra identità (libertà, individualità, irripetibilità...) contro tutto e tutti, se necessario anche contro “Dio”...
Ma a ben guardare... in tutti questi passaggi logici, c’è un punto debole (evangelicamente parlando), che fa crollare il ragionamento intero: quello descritto non è Dio, non il Dio di Gesù almeno... quella descritta non è infatti una promessa iscritta nella vita ma un mostro che toglie ogni respiro vitale alla sua creatura, che la soffoca e la opprime, tenendola sempre sotto ricatto...
Gesù ha rivelato un Dio diverso (“la mia banca è diversa” direbbe la pubblicità del Credito cooperativo): il Dio di Gesù è il Dio della vita, è il Dio della bellezza della vita, di colui che ci vuol convincere (questa è la fede) che è più bella una vita buona che una vita malvagia; una vita onesta, di una disonesta; una vita che vuol bene davvero, rispetto a una vita che sfrutta, arraffa e mangia tutto quello che trova sul suo cammino.
L’errore più grande del Cristianesimo in questo senso, forse, è stato proprio questo: non riuscendo a essere convincenti sulla assoluta bellezza di una vita buona (nel senso di evangelica), aver introdotto come deterrenti vari spauracchi per una vita malvagia (inferno, penitenze, conseguenze negative); accettando però in questo modo la premessa mondana che fare il male è più bello...
Dio invece è il Dio della vita; di quella stessa che noi nascendo aneliamo; quella stessa per cui noi siamo disposti a ribellarci a tutti pur di salvaguardare... Ecco perché ribellarsi a Lui è deleterio. Non perché si va all’inferno, ma perché ci si ribella alla vita, quindi a noi stessi, quindi all’esser-ci... Ma se l’uomo non ha Vita, appunto non c’è...
Ecco che allora anche le parole del Vangelo di questa I domenica di Avvento assumono un senso nuovo: non sono lo spauracchio che Gesù pone appena prima di morire per assicurarsi che “faremo i bravi”... quasi che dicesse: se non lo sarete quando arrivo vi sculaccio – come si fa coi bambini.
Esse sono piuttosto il tentativo di ribadire la decisività della vita: non si sa quando essa avrà il suo compimento storico (la morte fisica di ciascuno); addirittura neanche il Figlio sa quando la storia intera avrà una fine («Quanto poi a quel giorno e a quell' ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli dei cieli, ma soltanto il Padre mio», Mt 24,36). Eppure è in essa che ci si gioca tutto: il compiere o il fallire la propria destinazione umana, e cioè nient’altro che il quotidiano ridare credito alla promessa della vita, al fatto cioè che ne valga la pena; che esser-ci e esser-ci nella modalità dell’amore vero (cristico) per gli altri è la Vita...In modo da ricordarci sempre – come dice il mai così citato Zavoli – che “tutto è rimandato alle nostre responsabilità, com’è giusto che sia. Perciò non chiediamoci, così virtuosamente, celestialmente e pigramente quale sarà il destino dell’uomo, perché l’uomo stesso è il destino”.

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