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venerdì 21 novembre 2008

Quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli l'avete fatto a me

Il Vangelo che la liturgia ci propone per questa trentaquattresima domenica del tempo ordinario, in cui la Chiesa celebra la festa di Cristo Re, prima di immergersi nel tempo dell’Avvento, è costituito per intero dalle ultime parole di Gesù che Matteo ha organizzato nel discorso escatologico (Mt 24,1-25,46): le ultime parole prima che inizi il racconto della passione.
Questo discorso, nell’organizzazione matteana, si svolge a Gerusalemme: Gesù è appena uscito dal tempio (Mt 24,1), dove aveva avuto duri scontri con i venditori (Mt 21,12-13), con i sommi sacerdoti e gli scribi (Mt 21,14), con gli anziani del popolo (Mt 21,23 ss), con i farisei (Mt 22,15 ss; Mt 22,34-24,39) e con i sadducei (Mt 22,23 ss) ed è interpellato dai suoi discepoli: «Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio» (Mt 24,1). Questo invito diventa per Gesù (e letterariamente per Matteo) l’occasione per articolare una risposta dal sapore escatologico: Gesù infatti avverte che di tutte quelle cose «non resterà pietra su pietra che non venga diroccata» e, allargando il discorso, nuovamente sollecitato dai discepoli («Dicci quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo» Mt 24,3) inizia a parlare di guerre, carestie, terremoti, supplizi, uccisioni, falsi profeti... che anticiperanno, ma non saranno la fine. Il discorso si sposta allora sull’atteggiamento che i discepoli dovranno tenere in questa attesa del ritorno del Figlio dell’uomo: quello dell’essere vigilanti, sottolineato dall’inserzione di ben tre parabole: quella del maggiordomo (Mt 24,45-51), quella delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e quella dei talenti (Mt 25,14-30).
È proprio a questo punto che, dopo l’annuncio dei tempi ultimi e l’invito ad un’attesa vigilante, inizia l’ultima parte di questo discorso escatologico, coincidente con il vangelo di questa domenica. In modo evidente quindi lo sfondo delle parole di Gesù presenti in questo brano è quello del giudizio.
Anche l’incipit mostra l’inequivocabilità dell’atmosfera giudiziale: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri».
Se però sia dal contesto del brano, sia dal suo incipit , è chiaro il tenore delle parole di Gesù o almeno il clima escatologico che le avvolge, forse risulta ancora necessario specificare alcuni tratti di questa prospettiva giudiziale, per evitare di cadere in banali luoghi comuni.
La prima cosa da evitare è quella di considerare le parole di Gesù come una mera descrizione materiale del “come” sarà quello che noi abitualmente chiamiamo il “giudizio finale”. In particolare non possono essere prese alla lettera alcune espressioni linguistiche contenute in questo brano, che, se lette senza contestualizzazione, ci farebbero sussultare non poco: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli»; «E se ne andranno: questi al supplizio eterno». È infatti esegeticamente errato usare queste affermazioni per rispondere alle nostre domande ansiose sulla realtà e densità demografica dell’inferno. Questo è chiaro, anche a chi non è uno studioso specializzato della Bibbia, già solo per il fatto che è il contesto a suggerire questa impossibile interpretazione: se Gesù avesse voluto spiegare costituzione e composizione di inferno e paradiso avrebbe impostato diversamente il discorso; se non altro, per evitare di essere frainteso, avrebbe dichiarato esplicitamente il suo intento. E invece né qui, né mai nel Vangelo noi troviamo riferimenti materialistici alla vita nell’aldilà. Forse anche per questo le interpretazioni e divagazioni sul tema, hanno avuto un spettro talmente vasto da risultare a volte addirittura folkloristiche... Nessuna parola di Gesù infatti è in grado di risolvere le nostre angosciose domande sull’aldilà... Ma perché – ci verrebbe da chiedere – il Signore non ha sciolto questo enigma sul post mortem che per l’uomo sembra così determinante? Perché non ha indicato qualche breve e netta indicazione per arrivare in paradiso, in modo che fosse chiaro il da farsi? Perché, in ultima analisi, il Signore è sempre così sbilanciato sull’aldiqua, quasi ignorando deliberatamente l’anelito angoscioso dell’uomo per una risposta sull’aldilà? E, tornando al nostro brano, se in questo capitolo 25° di Matteo il Signore non sta delineando come sarà materialmente il “giudizio finale”, in che senso vanno intese le sue parole?
Anche se sembra un’evidenza, è utile far notare il fatto che mentre Gesù parla non si sta attuando quanto dice: il resoconto di Matteo cioè non è quello di uno che ha partecipato al “giudizio universale” e lo racconta. Il discorso di Gesù fa riferimento a un tempo che deve ancora compiersi («Quando il Figlio dell’uomo verrà...»). Forse può apparire superfluo porre questo piccolo chiarimento, eppure esplicitarlo permette da un lato di evitare di confondere realtà dei fatti e parole di “avvertimento” (come quelle di una mamma che dice: “Se mi porti a casa un 4 ti uccido”, dove è evidente l’iperbole che ha di mira il far studiare il proprio pargolo e non certo l’eliminarlo fisicamente...) e di inquadrare le intenzioni di chi sta parlando: l’intento di Gesù infatti, pare più quello di dare un criterio per la vita nell’aldiqua che un discrimen per la vita nell’aldilà. Detto altrimenti: l’intenzione di Gesù qui (ma, come prima si accennava, anche sempre nel Vangelo) è quella di richiamare alla decisività della vita nell’aldiqua. Questo è l’unico e solo interesse del Signore: che l’uomo sia Uomo nell’aldiqua. Anche perché ciò che saremo nell’aldilà non potrà che essere quello che siamo stati-diventati in questa vita terrena. Non è un altro da me quello a cui è promessa la vita eterna. La mia identità singolarissima nella sua completezza (la fede cristiana crede alla risurrezione della carne, non dalla carne come ogni tanto scappa detto a qualcuno mentre recita il Credo) è destinata alla vita eterna...
Le parole di Gesù hanno dunque di mira l’illuminazione della vita nell’aldiqua. È per la pienezza di questa vita, per la sua realizzazione in termini di umanizzazione della propria interiorità che sono dette!
Esse infatti rimandano al “chiodo fisso” di Gesù: tutta la sua vita (compresa la sua morte), le sue parole, i suoi gesti sono infatti l’instancabile riproposizione di un’unica verità: solo l’amore ha e dà senso alle vite degli uomini!
Non l’amore sentimentaloide che travolge gli adolescenti di ogni età, né quello superficiale e ipocrita di tanti perbenisti... sempre così bravi a parole e così terribilmente lontani dalla tragicità della vita degli altri. Ma l’amore come l’ha vissuto Lui, fatto di gesti e parole che rompono le distanze e i pregiudizi (etnici, sessuali, religiosi, politici...); che permettono davvero di incontrare l’altro senza ridurlo a oggetto della nostra gratificazione buonista, ma riconoscendolo nella pienezza della sua dignità di fratello; un amore che sa porre come unico e solo obiettivo della vita (e dell’alzarsi ciascuna mattina) il volere il bene di chiunque altro mi si pone sul cammino (sia esso uno dei miei o uno sconosciuto); un amore che sa essere fedele all’identità dell’altro, anche quando è lui stesso a smarrirla e che addirittura arriva a morire per farlo vivere...
Questo sta dietro a quel «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Non è un elenco di buone azioni che garantiscono il paradiso, come a volte è capitato di pensasse: magari andando in carcere per fare una “buona azione” coltivando contemporaneamente in cuore disprezzo e rancore nei confronti dei detenuti... Quello che propone il Signore ha una portata di tutt’altro livello: è il ribadire l’unico criterio che ha sempre guidato la sua vita nell’aldiqua, il suo stesso decidere (e decider-si): una vita è beata quando crede nell’amore a costo di morire per non rinnegarlo!
Il peccato, e dunque l’essere inferno a noi stessi, è smettere di dar credito a questa cosa: che solo l’amore abbia e dia un senso. Smettere di credere alla continua riproposizione del rapporto umano (da uomo a uomo) è fallire l’incontro con Dio. Paradossalmente, smentendo tante convinzioni devozionistiche, questo vangelo ci ricorda come o si avventura la vita sui volti degli altri, impastandosi con il loro cuore, mischiandosi alle loro lacrime, al loro sudore e al loro sangue, scandagliandone le perversioni e curandone le ferite, scoprendo come funzionano, come ragionano e sperano... o tutto questo non può essere vissuto neanche con Dio. Mentre è Vangelo, cioè buona notizia che questa intimità sia possibile sia con l’Uno che con gli altri!

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