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venerdì 28 novembre 2008

Dio s’allontana per venirci più vicino

Oggi, prima domenica di avvento, il nuovo anno liturgico inizia là dove il vecchio è finito. La stessa pagina finale del Vangelo (di Marco, questa volta!), con l'ultimo avvertimento di Gesù, prima del racconto della passione, come domenica scorsa, nel vangelo di Matteo. Il linguaggio è diverso, ma la preoccupazione è la stessa del racconto del giudizio finale: introdurre il discepolo di Gesù nella consapevolezza 'cristiana' del significato della vita in questo mondo e nella storia presente! Un messaggio forte e ribadito come essenziale per tutti: vigilate, state attenti, "sorvegliate" il vostro cuore, la storia, gli eventi, il loro senso e il vostro coinvolgimento.

La visione teologica del mondo e della storia

Nel linguaggio vivace e concentrato di Marco c'è, come premessa e motivazione del richiamo alla vigilanza, un breve tracciato teologico della salvezza che risponde alla domanda: cosa è successo, perché dobbiamo spendere la vita in questa attesa del Signore ? ‑ il quale è in arrivo, di sicuro, ma non si sa né come, né a che ora verrà! Il riferimento a Gesù, cioè il racconto della redenzione, è in sovrapposizione su quello della creazione e lo assorbe totalmente nell'attuale condizione del discepolo, il quale si scopre come abbandonato e lasciato solo due volte: dal Padre che l'ha creato e poi abbandonato nei pasticci di questo mondo inospitale; poi dal Figlio, che il Padre stesso ci aveva mandato per salvarci. È lui, infatti che, sotto la figura di questo "signore" strano, è espatriato dal suo popolo e ha abbandonato la sua casa, lasciando ai suoi servi la piena responsabilità dei suoi beni. Il vangelo di Giovanni spiegherà addirittura che proprio per questo il Signore glorificato ha dovuto lasciare i discepoli e se ne è tornato al Padre (Gv 16,7). Perché i discepoli e tutti noi ci affidassimo al suo Spirito, imparassimo ad assumerci le nostre responsabilità, capissimo che Dio non è il rimedio dei nostri problemi e il tappabuchi della nostra imperizia o il grande meccanico a cui ricorrere, perché aggiusti i guasti del mondo quando la terra e la gente vanno in corto … come certa teologia provvidenzialistica tuttora suggerisce. C'è una distanza di Dio necessaria per lasciare spazio all'uomo, perché i servi del Signore (pur coscienti che la casa è sua!) assumano le proprie piene responsabilità, secondo le competenze e il contributo che è loro richiesto e affidato.

Dio vicino e Dio lontano

"Fede in Dio e assunzione totale del proprio compito nella storia non sono contrastanti. L'azione creatrice di Dio non è come la nostra. Dio non aggiunge qualcosa a quello che c'è già. Dio concede alla creatura di fare quello che egli intende realizzare, immette nella creatura un'energia nuova, conduce la creatura a esprimere in se stessa la perfezione cui Egli l'ha destinata, la conduce così alla pienezza della sua perfezione, a raggiungere quella identità autentica e vera di figlio di Dio che è immagine del Padre. Quando noi diciamo che Dio agisce, vogliamo affermare che la creatura accetta di fare quello che Dio le offre di fare, senza che lei neppure se ne accorga. Essa potrebbe pensare di essere il soggetto autosufficiente dell'azione, mentre è Dio che opera perché possa essere e fare. Egli in questo modo comunica alla creatura la sua perfezione a piccoli frammenti attraverso i quali, nel tempo, la creatura va verso la sua perfezione. Se la creatura accetta questi piccoli passi verso la perfezione cresce, se li rifiuta si blocca, se li rifiuta coscientemente pecca" (Molari). Perché, sappiamo, "tutto è compiuto" con la passione, morte e resurrezione di Gesù! Ma la responsabilità del credente nella creazione e nella storia è esaltata non cancellata, dalla redenzione di Gesù.

La purificazione della fede

Il profeta che si ispira ad Isaia, tanti anni dopo, è portavoce dell'esperienza di Dio in un momento drammatico del "resto" di Israele, deportato e decimato, che torna a Gerusalemme, chiamato a ricostruire, ancora una volta, città e tempio e vita sociale, dopo il grande esilio. Sa, per sofferenza dolorosa, cosa vuol dire vicinanza e lontananza (desiderio e abbandono) di Dio. Sa che il bisogno dell'uomo di catturare Dio e tirarlo a forza dalla propria parte, con parole e gesti, preghiere e sacrifici, benedizioni e maledizioni, rischia la magia e l'idolatria. La fatica ad accettare la lontananza di Dio, senza sostituirlo con altri pseudo assoluti, è stata l'esperienza di purificazione della "fede spoglia" che ha imparato lontano dalla sua terra e da Dio. Ogni esilio o offuscamento di Dio ha questo significato. Se Dio è lontano, se di fronte alle difficoltà della vita si svuotano i segni sacri, se sacerdote, re, profeta… rivelano la loro insufficienza, l'uomo deve lasciare mettere a nudo la propria miseria e piccolezza. Cioè il senso della propria totale alterità rispetto a Dio. Ferito nella sua fede, il credente scopre la sua inconsistenza esistenziale, la fragilità morale e l'angoscia del peccato.

"Ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema". S'insinua così il dubbio amaro che proprio la nota più caratteristica dell'esperienza di Israele e cioè la convinzione che Dio si è fatto vicino ed è intervenuto nella storia del "suo" popolo, sia un'illusione! … Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato. Ma il desiderio di risentire e rivedere Dio riesplode: Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Il profeta sa la barriera che s'interpone tra Dio e l'uomo: abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli… Per cui lo smarrimento totale: perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balìa della nostra iniquità. Non si tratta solo della debolezza congenita dell'uomo: si tratta della bruciante esperienza che tutti i nostri atti di giustizia sono come un panno immondo con cui inutilmente cerchiamo di ripulirci… Condannati a soffrire l'impossibilità della giustizia, come se fossimo colpevoli di una malattia mortale, da cui non possiamo guarire.

La centralità di Gesù Cristo

Questa distanza insuperabile che ci toglie la parola, questo smarrimento che ci impedisce di intravvedere il volto di Dio, s. Paolo li vede superati in Gesù Cristo, che è la parola e il volto del Padre. L'entusiasmo esuberante con cui scrive questo inizio della lettera ai Corinzi (la comunità più vivace ed esplosiva) manifesta l'intensità appassionata e totalizzante del suo riferimento al Signore. In sei righe, per otto volte trova modo di riferirsi a lui. Ogni verbo gli richiama la sua azione o la sua presenza: in lui la grazia del Padre si è riversata su di noi, per restituirci parola e consapevolezza. Con la forza della sua testimonianza, così radicata in noi che nessun dono ci può mancare, siamo in attesa della sua piena manifestazione, confortati nella fede, fino alla fine! Eppure Paolo è immerso e talora sopraffatto da difficoltà e contrasti, incomprensioni e tradimenti, ostacoli senza fine…, ma vive questa attesa della manifestazione del Signore con un entusiasmo ed una dedizione inesauribili. Il segreto sta lì, nella passione per Gesù che lo impregna: non son più io che vivo, ma Cristo che vive in me! (Gal 2,20) Il Dio 'lontano' (a badare al suo non interventismo storico!) è tanto vicino al suo discepolo da intriderne tutta l'esistenza, fino a divenire la spinta vitale di ogni sua passione e attività.

Provvisorietà non è disimpegno: quello che dico a voi lo dico a tutti!

Sembra una contraddizione. Molti pensano che sia difficile o anche impossibile conciliare la consapevolezza della precarietà di tutti i progetti con un coinvolgimento totale nella continuità di un impegno storico. Non potrebbe, la precarietà, condurre al disimpegno e al deprezzamento di ogni progetto? A questa domanda vuole rispondere la Parola di oggi. Per i credenti in Dio, soprattutto nella prospettiva cristiana, la Vita esiste già in forma piena e definitiva e può esprimersi in modo sempre più ricco nello sviluppo della storia, a condizione però che vi siano ambiti accoglienti. L'impegno nella storia quindi continua ad essere assolutamente necessario, non perché i progetti umani siano definitivi, adeguati e compiuti, ma perché attraverso di essi prende forma concreta, anche se ancora provvisoria, l'azione creatrice e redentrice di Dio. Noi siamo invitati a camminare nella via di Gesù (i primi cristiani sono chiamati «seguaci della via di Cristo» in At 9,2) tenendo lo sguardo fisso su di Lui, che è e che viene, anche se sembra essere partito per un paese lontano. Ne consegue che tutta la spiritualità cristiana si sviluppa sulla scia della fede di Gesù, come rapporto con Dio riconosciuto in Lui come Principio di una Parola che illumina e di una Forza che dona vita e ci rende figli… che servono il Padre e i fratelli sulla terra, ma il cui nome è già scritto nei cieli.


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