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Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

lunedì 8 novembre 2010

La Pietra

Nella vita certe coincidenze fanno pensare:

A Barcellona il Papa "inaugura" la Sagrada Familia. Opera (ancora) incompiuta di Gaudì che tra le altre cose è una sfida alla forza di gravità: a guardarla uno non può proprio non chiedersi come cavolo faccia a stare in piedi!

A Pompei il Bondi visita le macerie della Casa dei Gladiatori... e ci si chiede come cavolo abbia fatto a crollare!

Un "presente" che è più di una metafora di futuri possibili!




venerdì 29 ottobre 2010

XXXI Domenica del Tempo Ordinario: Prima la comunione, poi la conversione!

Le lettura che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del Tempo Ordinario, sono costellate di “elementi noti” per le nostre “orecchie cristiane” o, comunque, per le orecchie di coloro che sono cresciuti a bagnomaria in una cultura cattolica come la nostra: si parla infatti di peccati, peccatori, conversioni, perdono di Dio…


Ma – come sempre – l’emergere di “fattori conosciuti” porta in sé un grosso rischio… quello cioè di dar per scontata la Parola di Dio, perché – sostanzialmente – ci si ritiene già esperti in proposito… o comunque si ritiene che la “solfa” ecclesiale sul bene e sul male, sull’espiazione e sulla misericordia di Dio sia giunta fin troppo volte a invadere il nostro spazio uditivo, arrivando fin a farci dire “Ne abbiamo abbastanza, sappiamo già tutto!”.

Il punto è che questo “tutto” che pensiamo di sapere e che ci salta in mente istintivamente, quando certi termini ricorrono nei discorsi ecclesiali e – ahi noi l’identificazione! – nei testi biblici, è il risultato di un’operazione logica che associa le parole prima elencate (peccato – peccatore – conversione – perdono di Dio) più o meno in questo ordine: l’uomo pecca, ritrovandosi in uno stato (quello di peccatore) da cui deve uscire – se vuole salvare l’anima o per lo meno l’amicizia con Dio – e, per farlo, deve mettere in atto tutta una serie di cose (pentimento, espiazione, penitenza o, se già morto, le preghiere, le messe, le offerte dei familiari…)… a quel punto non resta che sperare nella misericordia di Dio… che lo faccia deliberare per il perdono.

Questa è la morale che ci hanno insegnato: non bisogna fare il male, perché altrimenti si incorre in una punizione (prima si pensava terrestre, poi – dato che a volte non sopraggiungeva – celeste, cioè l’inferno); se lo si fa, bisogna in tutti i modi porvi riparo al più presto, per evitare che possa capitare di morire in stato di peccato e dunque – appunto – incorrere nel castigo eterno. Da cui la necessità di tutta una serie di atti riparatori che ripristino la possibilità di tornare ad essere guardati da Dio non come dei peccatori da punire, ma come dei pentiti da accogliere con misericordia.

In tutto questo ragionare il ruolo dell’uomo è quello di non fare il male per evitare la punizione e quello di fare il bene per meritare un premio, in un’esistenza che non ha senso in sé, perché unico scopo di questo mondo sembra essere quello di fare da banco di prova per decidere del nostro futuro eterno: se fai il bravo vai in paradiso, se fai il cattivo vai all’inferno, se sei così così vai in purgatorio.

Anche a Dio però in questo quadro non si dà un gran posto… Di fatto, al di là di porre gli uomini nell’esistenza, il suo ruolo sembra solo quello di ratificare l’esito delle varie vite: dire se uno è bravo e meritevole del paradiso oppure no… Sembra addirittura che non sia poi proprio Lui a salvare gli uomini – perché questi, se si comportano bene, si salvano da soli, si meritano il paradiso!

Dentro a questa mentalità – presentata magari in maniera un po’ essenziale (cioè senza i fronzoli che tentano di attenuare i vari passaggi, per renderli meno ridicoli), ma indubbiamente ancora assai diffusa nel pensiero cristiano medio (cioè in quell’imprinting che abbiamo dentro tutti e ci sale alle labbra in maniera automatica) – noi crediamo di sapere il “tutto” della proposta evangelica sul peccato… e dunque evitiamo di tornare a prendere in mano i testi o li leggiamo distrattamente…

Solo che quando invece si decide di far la fatica di andare a rileggersi le letture, ci si accorge che ci son lì due o tre bordate inconciliabili col nostro pre-sapere, cioè con la nostra conoscenza previa della tematica in questione.
Innanzitutto il libro della Sapienza, che di Dio dice: «Hai compassione di tutti», «chiudi gli occhi sui peccati degli uomini», «sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita»… qualcosa di un po’ diverso dal volto di Dio che emergeva nel nostro modo solito di pensarLo in relazione al nostro peccato…

Ma ancora più sconvolgente il vangelo, dove – a ben guardare – è proprio descritta la storia di un peccatore (Zaccheo)… solo che i passaggi che compongono la sua vicenda (pur essendo i medesimi citati in precedenza), sono come assemblati in una maniera fantasiosamente diversa da quella che automaticamente a noi era venuta in mente…

Infatti, anche se il punto di partenza è il medesimo (c’è un uomo che ha peccato – ripetutamente, tra l’altro – e dunque si ritrova nella condizione del peccatore), già il secondo elemento varia… non c’è l’esigenza di uscire da questo stato e dunque di mettere in atto tutti gli escamotage che possano “lavare l’anima”… Zaccheo non sembra particolarmente preoccupato del suo essere peccatore… anzi, quando si presenta sulla scena evangelica è presentato più come un pacifico curioso che vuol vedere chi è questo Gesù che passa per la sua città, che un martoriato peccatore in cerca di espiazione… anzi… sappiamo che è un pubblicano solo grazie al commento dell’evangelista, non perché i suoi gesti o le sue parole o i suoi pensieri lo lascino percepire come un peccatore o quant’altro: «In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là».

Cambiando la prima delle associazioni in gioco nell’elaborazione di una logica che tenga insieme gli elementi della vicenda del peccatore, cambiano inevitabilmente a catena anche tutti gli altri… e di fatti il passo successivo non è la richiesta di perdono di Zaccheo a Gesù, ma il fatto che Gesù decida di incontrare Zaccheo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”». È a questo punto che il peccatore si converte e mette in atto tutta una serie di scelte che lo porteranno a cambiare il suo comportamento: «Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”».

Allora… riassumendo…

Il nostro pensiero automatico era: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta a rischiare di incorrere nell’ira di Dio e nella sua punizione quindi deve convertirsi e fare tutto ciò che serve per espiare la sua colpa – a questo punto può sperare che Dio, nella sua misericordia, lo perdoni.

Mentre il vangelo dice: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta ad essere cercato dal Signore («Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto») e questa offerta di comunione, accoglienza, benevolenza, scioglie l’interiorità del peccatore, che per questo si converte, contagiato da quel bene che ha ricevuto.

La prospettiva è un po’ diversa… il volto di Dio in gioco è un po’ diverso… ma anche il volto dell’uomo… Il punto è decidere a quale dare credito, sapendo però che non si tratta di una scelta nominalistica (scelgo che etichetta mettere sulla scatola della mia fede ma poi il contenuto è comunque sempre lo stesso), ma di una scelta da cui dipende il mio modo di stare al mondo, di guardare al mondo, di inserirmi in questa storia… da questa scelta infatti dipende come guardo/penso Dio, come guardo/penso me stesso, come guardo/penso gli altri e dunque quali scelte faccio, a quali emozioni decido di dar peso e a quali no, su cosa investo e spendo energie e passione e dedizione e su cosa invece no… sapendo che – come per Zaccheo – il termometro dell’adesione vera alla prospettiva di Gesù è «il cambiamento delle relazioni e la gioia del cuore! È il passaggio da un rapporto di oppressione, competizione, imbroglio reciproco… magari frenato da normative morali e legali, che custodiscono una più o meno sopportabile convivenza … ad un nuovo rapporto conviviale, sbilanciato nella benevolenza sia verso i poveri e i deboli, sia verso chiunque abbiamo fatto soffrire… Una trasformazione inondata di gioia, perché ciò che inconsapevolmente soffoca la gioia dentro il cuore di tutti gli Zacchei che noi siamo, è la sofferenza che il nostro comportamento provoca negli altri, l’indifferenza alla loro sorte, per insensibilità di cuore, o il raffinato disprezzo che nullifica le persone. Il giovane ricco, che non ha avuto il coraggio di condividere i suoi beni con i poveri, come Gesù gli suggeriva, se ne andò triste… non per i propri peccati, che non aveva!... (Quando ci convinceremo che non sono importanti, i peccati, per la salvezza?… anzi nel vangelo sono proprio i peccatori che si convertono a Gesù, provocando gioia perfino negli angeli del paradiso – più che i giusti!). Se ne andò triste, comunque, perché aveva rifiutato di condividere i suoi beni con i poveri. Forse lui non lo sa, ma è la loro sofferenza che lo contagia e gli incupisce il cuore. Ancora una volta non si tratta di doveri morali adempiuti o trasgrediti, si tratta di relazioni umane da liberare e trasformare in amore, perdono e accudimento reciproco… Questa è la salvezza che Gesù è venuto a portare. [E infatti] Zaccheo si è ammalato della malattia di Dio. Questa è la vera causa dello “scioglimento dei peccati”, praticata da questo Rabbi! Zaccheo si è ammalato di compassione, cioè di passione per la vita degli altri, a cominciare dai poveri e da quelli che ha impoverito lui! E’ diventato “amante della vita”, non dei soldi. Perché gli è rinato dentro il vero amore dei viventi. E allora i soldi e i beni sono solo dei mezzi per vivere e far meglio vivere la gente. I capi e i responsabili del popolo e del tempio disprezzavano il pubblicano, ma usufruivano del servizio. Questo Rabbi non lo disprezza per niente, anzi si è autoinvitato a casa sua, tra lo stupore scandalizzato della gente, ma gli ha riempito di gioia il cuore e tutta la casa. Gli ha tolto di dosso per sempre il disprezzo e gli ha cambiato la vita, con questa seconda “celebrazione penitenziale evangelica” che Gesù ha celebrato, con intenso compiacimento e tenerezza. (La prima è stata in casa di Simone il Fariseo (7,36ss), con la prostituta che, anche lei tra il disprezzo dei benpensanti, non ha altro di suo da dargli che profumo e baci, lacrime e carezze… Non a caso sono i due i prototipi di tutti i peccatori che hanno accolto la salvezza e ci precederanno in paradiso!)» [Giuliano].

Ma… se a Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato così poco, cioè che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... e se questa logica è vera anche nella nostra esistenza (quante volte infatti ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...), se, infine, abbiamo un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», perché invece quando i peccatori sono gli altri, noi (come chiesa e come singoli) riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?

Forse “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione... come Gesù/Dio con Zaccheo/l’uomo…

venerdì 22 ottobre 2010

XXX Domenica del Tempo Ordinario: Il comune impasto umano genera misericordia

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentesima domenica del Tempo Ordinario, vertono tutte sulla tematica di Dio «giudice giusto»… Un Dio che non fa «preferenza di persone»… Anzi un Dio giudice molto diverso e sorprendente rispetto a quello che abitualmente ci immaginiamo.

Solitamente, infatti, noi, di fronte all’idea del Dio giudice abbiamo un’istintiva reazione di paura, di soggezione, di sconcerto per Chi – sappiamo (o crediamo di sapere) – analizza puntigliosamente la nostra condotta, la nostra morale, la buona riuscita o meno della nostra vita e di tutti quegli atti che la compongono… In realtà – almeno così dicono i brani delle letture – questa prospettiva di “aggiustamento” della vita per risultare graditi a Lui, non pare propriamente in linea con quella che la sua Parola propone…
Lo si vede in maniera chiara già nel testo del libro del Siracide, dove si sottolinea come la preghiera più ascoltata, anzi lo sfogo del lamento più ascoltato, non sia quella del “giusto”, bensì quello di chi apparentemente risulta “non riuscito” (l’orfano, la vedova, il povero, l’oppresso…), indipendentemente dalla sua condotta… Un brano, dunque, dove ad emergere non è tanto il volto di un Giudice preoccupato della moralità di chi gli sta davanti, ma piuttosto quello di Chi è preoccupato della ferita (da umanizzare) di chi lo prega.
In proposito, dovremmo tornare a leggere sempre più spesso quello che Teresina scriveva sulla castità (e cito questo esempio perché, ancora oggi, i cristiani abitualmente quando parlano di “morale”, implicitamente fanno riferimento soprattutto alla “morale sessuale”): «É sorprendente come le anime perdono facilmente la pace a proposito di questa virtù! Il demonio lo sa bene: per questo le tormenta così tanto a questo riguardo! E invece non c’è tentazione meno pericolosa di questa. Il modo di liberarsene è di considerarle con calma, non meravigliarsene, ancor meno temerle. Normalmente, al primo attacco, ci si spaventa, si crede che tutto è perduto: è proprio di questa paura, di questo scoraggiamento che si serve il diavolo per far cadere le anime. E invece siate sicura che una tentazione di orgoglio è ben più pericolosa – e il buon Dio ne è ben più offeso quando uno vi soccombe – che quando fa una caduta, anche grave, contro la purezza, perché Egli ha riguardo della nostra natura ferita, mentre per una caduta d’orgoglio non c’è scusa. Però è una caduta – quella d’orgoglio – che le anime commettono spesso e facilmente, senza inquietarsene. Una tentazione di orgoglio dovrebbe essere temuta più del fuoco, mentre una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male» [S.Teresa di Gesù Bambino fa questa confidenza a sr Maria della Trinità, che si lamentava con lei degli scrupoli di cui soffriva a riguardo della virtù della castità... CRM pp 86-87].
Ma, tra i testi odierni, è poi soprattutto nella parabola evangelica, che va in crisi l’immagine del Dio giudice che continuamente la nostra mente ci ripropone; un’immagine di Dio che – se è vero quanto diceva il papa e cioè che «Non ogni dio è degno di fede»! – ha bisogno continuamente di essere decostruita (perché questa è la conversione evangelica!) per far spazio – tra le macerie del nostro volto di Dio – al dissotterramento del suo volto, quello che Lui – attraverso suo Figlio – ci ha voluto raccontare.
La parabola è costruita su due personaggi chiave, il fariseo e il pubblicano. Ma dato che per esplicita dichiarazione di Luca, la vicenda è stata pensata appositamente «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», la corretta prospettiva con cui guardare al testo è quella di concentrarsi, almeno inizialmente, sul fariseo. Lui è l’efficace caricatura di chi ascolta, di chi legge.
Quel fariseo non è dunque immediatamente da identificare con quelle persone che – nella nostra vita, nella nostra chiesa, nella nostra comunità – noi individuiamo come particolarmente puntigliose nell’osservanza esteriore e legalistica delle norme ecclesiali, morali o cultuali e che hanno (quasi automaticamente – pare dire il vangelo) un innato disprezzo per gli altri che non sono bravi come loro o giusti come loro o osservanti come loro… Ma piuttosto l’identificazione va fatta col fariseo che c’è in ciascuno di noi… Con quella parte di noi che così spesso prende il sopravvento e che – appunto – nelle cose che fa, si sente giusta e – proprio per questo – pensa di trovarsi in una posizione tale (superiore) che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso, con disprezzo. Un disprezzo magari mascherato… dietro al pensiero che se a comportarsi in un certo modo o a costruire un certo tipo di vita «ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia!» [Giuliano], ma comunque un disprezzo acre nella sua sostanza, nonostante tutti i nostri tentativi postumi di dissimularlo…
I problemi in gioco sono dunque almeno due per noi farisei… e strettamente legati tra loro:

       - Il ritenersi giusti;
       - E il conseguente disprezzo per gli altri (non giusti come noi).

Perché questi atteggiamenti sono considerati problematici dal vangelo? E come si può fare per estirparli dal nostro cuore?

La prima domanda si pone da sé nel momento stesso in cui analizziamo il nostro sentirci giusti… Se faccio qualcosa di buono, perché non dovrei riconoscermelo (che vuol quasi sempre dire, “perché non dovrebbero riconoscermelo”, visto che siam sempre molto più preoccupati del giudizio altrui che del nostro…)? E perché – per altro verso e chiamando in causa l’altro atteggiamento problematico – se l’altro fa qualcosa di male o non fa bene ciò che deve fare, non devo biasimarlo? Perché non ci deve essere questo paragonarsi, mettersi in qualche modo in competizione nel bene, questo correggersi? Non ci sono forse passi biblici che indicano precisamente questa strada?

Come sempre, in questioni di questo tipo, bisogna intendersi sul linguaggio… perché altrimenti, con le stesse parole si rischia di dire tutto e il contrario di tutto e non arrivare mai ad intendersi…

Un metodo efficace per capire dietro alle parole di ciascuno, quale pensiero si nasconde, è quello di provare a immaginare il perché delle sue parole, delle sue domande, dei suoi perché. Cosa lo preoccupa, dove sta andando a parare… in altre parole… quali sono le sue vere intenzioni…

Allora, è evidente che va benissimo il riconoscimento (anche altrui) del bene che faccio e anche la saggia correzione fraterna per il male che l’altro fa, ma il punto è: in vista di che cosa? Faccio il bene per me, per la gratificazione del sentirmi dire “bravo” o perché nel bene che faccio vedo intorno a me che il mondo (o almeno un pezzettino di esso) si umanizza, sta meglio… per dirla come Gesù: perché per qualcuno arrivi il Regno di Dio…? E l’altro perché lo correggo? Perché così dal confronto emerga che io sono “più bravo” di lui o perché nel male che fa, vedo il male che si fa e allora cerco di umanizzargli la sua ferita?

Perché il punto – credo – sta proprio qui… è impensabile paragonare le esistenze e vedere quella “meglio riuscita”… ma non solo perché – come ci insegnano alle elementari – “non si fanno i confronti”, ma perché non è vero che ogni esistenza parte dalle stesse possibilità. E non è neanche vero che due esistenze con pari opportunità (chi sarebbe poi a stabilirlo che sono pari?) dovrebbero avere lo stesso esito… perché non esistono due individualità uguali (non sarebbero più individualità!), ma solo soggetti unici e irripetibili, con le loro storie, le loro ferite, la loro cultura, le modalità di reazione di fronte alle cose che gli si sono introiettate chissà quando…

Allora… è troppo facile stare dalla parte giusta del mondo e dimenticarsi che quella “giustezza” proprio in una piccolissima misura è nostra… è troppo facile condannare chi si separa, quando noi ci ritroviamo in mano un matrimonio riuscito per grazia, o – detto laicamente – perché c’è andata bene e neanche noi sapremmo dire poi perché… è troppo facile condannare il rom che ci rompe al semaforo per chiederci i soldi, quando noi abbiamo ogni giorno da mangiare, chi ce lo prepara e anche tutto il resto in aggiunta…

Cioè, io credo, finché l’altro lo guardiamo come estraneo, cioè non fatto della nostra stessa pasta umana, continueremo a guardare ai nostri privilegi (e anche l’essere giusti lo è!) come a qualcosa di “dovuto”, di “meritato”, dunque nostro; e alle loro disgrazie come qualcosa di loro, altrettanto “dovuto” e “meritato”… ma in negativo…

È questo il retro pensiero delle domande che – un po’ provocatoriamente – ponevo… è il retro pensiero di chi si sente – appunto – giusto! Ma non è la visione del Signore e nemmeno quella di quelle frasi bibliche che invitano a fare il bene (a essere giusti) e a correggere chi sbaglia! Usano le stesse parole nostre, forse, ma intendono tutt’altro… Mettono cioè al centro la parentela del comune impasto umano di cui siamo fatti, la comune figliolanza divina, la consanguineità della matrice con cui siamo generati… non a caso il primo discrimine è razziale (cioè è la messa in discussione di questa fraternità tra gli uomini di tutti i popoli)…

La prospettiva biblica, soprattutto evangelica, infatti, è quella per cui l’altro non mi è estraneo, nemmeno quando è colpevole (non giusto o non giusto come me…)… l’altro è mio e così caro che piuttosto che la sua vita, preferisco perdere la mia… che è la storia di Gesù (che non a caso è venuto ad insegnarci che faccia c’ha Dio e come si fa a essere uomini secondo il sogno di Dio!): «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» Rm 5,6-8.

Ma come si fa ad accedere a questo modo di stare al mondo, senza che risulti un bel pensiero che ci appiccichiamo addosso, ma che non riesce mai a penetrarci nella pelle e a convertirci la carne?

Beh… sicuramente stando a bagnomaria nel “modo di stare al mondo” del Signore… quindi nella sua Parola, nella memoria della sua carne data per noi, nella relazione personale con Lui… In più… ricordando quanto diceva Teresina («una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male»), permettendoci di accedere all’umiliazione (all’essere humus, terra, carne umana strettamente imparentata con quella di tutti i peccatori della storia) non come ciò che ci annienta, ma come ciò che rompe la durezza della nostra giustizia e ci fa accedere alla misericordia per tutti: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».

sabato 16 ottobre 2010

Pecunia olet

La merda di Satana? Puzza, puzza, altroché se puzza! Non se ne accorge solo per chi ha il naso (della coscienza) chiuso: Provate a sturarvi il naso e sentirete che fetore…

Ho letto questi articoli – entrambi del Corriere – e non riuscivo a sopportare i miasmi che i cultori del denaro emanano!
In entrambi viene poi il sospetto che tanta acredine verso le “minoranze”, nasconda ben più lucrosa benevolenza verso il loro economico sfruttamento.


XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: LA PREGHIERA, LA PAROLA E LA CHIESA… L’ALVEO CHE CUSTODISCE LA FEDE PER QUANDO IL FIGLIO DELL’UOMO VERRÀ

Le letture che la Chiesa ci offre in questa ventinovesima domenica del tempo ordinario, sono tutte e tre molto belle e molto ricche e mi pare che riescano – meglio che in tanti altri casi – a tracciare un arco di senso facilmente individuabile e comprensibile, perché molto vicino all’esperienza che anche noi spesso ci troviamo a vivere.

Innanzitutto Mosè… è l’uomo nelle cui mani sta la sorte dei suoi… mani fragili, mani di uomo, mani di un uomo solo… che prima o poi iniziano a pesare.
Anche noi spesso ci sentiamo così – a torto o a ragione – con il peso dei “nostri”, con il peso degli altri, con il peso delle situazioni, tutto sulle nostre spalle… spalle fragili, spalle di uomini e donne… spesso soli…
La Parola ci intercetta qui… nella pesantezza di una condizione che – ci pare – non siamo in grado di sos-tenere…
E ci intercetta con tre grandi sottolineature, che riescono forse a ridarci la forza che lungo i giorni si è logorata… o, se non altro, a ridarci la lucidità con cui guardare alla vita:

1- Innanzitutto la sottolineatura del libro dell’Esodo… Non è vero che siamo soli! Nella comunità di chi ha passione per l’annuncio evangelico c’è sempre un Aronne e un Cur che può sostenere le nostre mani… qualcuno che ci dà una pietra su cui sederci e che “tiene su” con noi le sorti altrui…
Che è stata anche la scoperta del presuntuoso Elia, quando alle sue parole «Io sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta», il Signore stesso aveva risposto dicendo, piuttosto ironicamente: «Io, poi, ho riservato per me in Israele settemila persone»… (1 Re 18).

2- La seconda sottolineatura è la parola di Paolo a Timoteo… La parola della saldezza, della fondatezza e della giustezza del nostro essere lì a tener su, per tutti, le mani… una fondatezza (e una giustezza) che, quando le mani iniziano a pesare, è la prima ad andare in crisi… Perché siamo qui? Per chi? Con la smaniosa voglia di lasciar perdere, abbassare le mani e lasciare che tutto vada allo scatafascio, con l’autogiustificazione ingannatrice che “ci stavano chiedendo troppo” e dunque che “era proprio inevitabile lasciar stare e pensare un po’ a noi stessi (alla nostra sopravvivenza)”… E invece Paolo ci riporta (ci butta – forse – un po’ in faccia) il modo giusto con cui guardare la realtà: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia»!
Come a dire: “Figlio/a, tu sai perché sei lì a tener su le mani per tutti! Tu sai che sono degni di fede coloro che lì – attraverso questa storia di uomini (e donne) – ti hanno posto. Tu sai che ha una fondatezza ciò in cui hai creduto e che ora ti è andato in crisi… Una fondatezza che, ancora (e sempre), è rintracciabile, mantiene aperto il suo accesso… perché la Scrittura rimane, anche quando chi te l’ha insegnata non c’è più!”.

3- E infine la terza parola, quella del vangelo, «sulla necessità di pregare sempre»… non la preghiera per quel dio che abbiamo dentro (costruito da noi! E che dunque è un idolo!), che assomiglia così tanto al giudice «senza religione e senza pietà» del racconto lucano, ma «La preghiera capace di ottenere tutto da Dio», «quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui» [Giuliano] a cui diamo del “tu”.
Ecco dunque tratteggiato, brevemente, il percorso che le letture ci invitano a fare questa domenica… perché i Mosè a cui pesano le mani, la vedova abbandonata senza più l’appoggio di nessuno, siamo noi!
Siamo noi quelli sostenuti – finora – da un’ostinazione invincibile che adesso invece pare aver perso la sua imbattibilità, per lasciarci nel «l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo»…
Siamo noi quelli a cui – con il Salmo 41,5 – vien da dire: «Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio, in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa». Ma ora…
Siamo noi quelli tentati di fare come «l’Ivan di Dostojevski e restituire dignitosamente a dio il biglietto da visita» dicendo «non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui!»…
Siamo noi quelli che Gesù ha voluto portare con sé, «a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare…» [Giuliano].
Siamo noi quelli immersi in una situazione che biblicamente si chiama la “prova” e che è radicale proprio perché mette in discussione Dio, il suo volto, il nostro modo di pensare la storia, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, la sensatezza e l’insensatezza… e che il Signore chiama a ri-decidersi per Lui e a non fare come Israele, che ogni volta che ha sperimentato qualcosa che mandava in crisi l’idea che si era fatto di Dio, passava a qualcun altro, costruendosi vitelli d’oro…

Ecco perché le sottolineature così pressanti sulla necessità della preghiera, della Parola e della Chiesa, come alveo da cui non sottrarsi quando il germe della sfiducia, della stanchezza e dell’insensatezza si insinua nei nostri interstizi e inizia a rodere le fondamenta del nostro essere… Perché la prova in cui la vita mette l’uomo, non si trasformi nella prova in cui l’uomo mette Dio, che – non a caso – in queste situazioni viene identificato immediatamente con il giudice sordo della parabola, o con colui che ci lascia soli a tener su le mani per tutti… comunque quello della cui parola si inizia a diffidare…

«… a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!» [Giuliano], anzi ri-accedere a quello autentico, tornare a sbilanciarsi con fiducia verso il volto di Dio a cui la Parola dà una fondatezza e al quale – come dice un bellissimo canto liturgico - «A te fratello chiedo di credere con me…».

venerdì 8 ottobre 2010

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: Il circolo della riconoscenza

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa ventottesima domenica del Tempo Ordinario, ha come oggetto il racconto di un miracolo. Un miracolo che per molti aspetti ricalca lo “schema” consueto con cui questi segni di Gesù (cioè queste modalità gestuali con cui annuncia il Regno) sono solitamente narrati; ma anche, un miracolo, che viene raccontato con qualche particolare “variazione sul tema” e che proprio per questo suscita particolare interesse: è il racconto di un miracolo, certo, come ce ne sono tanti nei vangeli… eppure è un racconto sui generis, non classificabile con troppa leggerezza come uno dei tanti miracoli di Gesù.


Proprio per questo proviamo a ripercorrere il testo lucano con ordine, in modo da recuperare il senso sia degli aspetti comuni del “tema-miracolo” – che, non perché sono comuni, vanno per questo sottovalutati –, sia delle singolarità di questo racconto di miracolo.

Innanzitutto la contestualizzazione: siamo al capitolo 17 del vangelo di Luca, i versetti 11-19; e come ci ricorda l’evangelista stesso ci troviamo «Lungo il cammino verso Gerusalemme». Siamo cioè in quella sezione del vangelo di Luca che organizza il materiale, di cui l’evangelista è in possesso, secondo il canovaccio del viaggio verso Gerusalemme: un viaggio iniziato al capitolo 9,51 (con la celebre espressione: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [indurì il suo volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme») e che sta ormai per giungere a compimento (Lc 19,28). Un viaggio che ha visto – appunto – lo snodarsi di molte delle vicende più importanti della vita pubblica di Gesù (parabole, guarigioni, insegnamenti, contrasti, ecc…) e che ora è testimone di questo incontro con i dieci lebbrosi, che – come dice il testo – «si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”».

Questo loro comportamento (fermasi a distanza e urlare) – che a noi potrebbe sembrare strano – in realtà è in perfetta consonanza con la legge ebraica in materia di lebbra (cfr. capp. 13-14 del libro del Levitico), la quale in particolare in Lv 13,45-46 sancisce: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Ma anche la reazione di Gesù (che «appena li vide, disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”») è rispettosa della legge, la quale prescriveva in caso di guarigione l’obbligo di presentarsi ai sacerdoti perché quest’ultima fosse certificata: «Questa è la legge che si riferisce al lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà…», Lv 14,2-3 + tutti i versetti seguenti che indicano la ritualità sacrificale per la riammissione del lebbroso – ormai guarito – nell’accampamento). Si tratta, dunque, semplicemente di «un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso» [P. Curtaz].

Fin qui dunque, niente di particolarmente significativo, se non il fatto che, a differenza della mentalità dei suoi contemporanei, Gesù non considera coloro che sono affetti da lebbra come dei maledetti, degli impuri da evitare o come peccatori castigati. Li accosta e li guarisce (lo aveva già fatto – secondo il racconto di Luca – al cap. 5,12-14). Per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbano fermarsi a distanza (cfr. B. MAGGIONI, il racconto di Luca, p. 301).

A ben guardare però, qualcosa di incongruente con la tradizione ebraica c’è: Gesù invia i dieci lebbrosi al sacerdote prima di guarirli (e non dopo averli guariti, come prevedeva la legge)! Essi infatti «mentre andavano, furono purificati»…
Questo dettaglio apre ad un duplice ordine di considerazioni: innanzitutto l’emergere di un elemento costitutivo della struttura dei miracoli di Gesù. Essi non sono mai gesti di dimostrazione fatti per catturare l’attenzione e la fede (la credulità) della gente – come invece troppo spesso il sentire comune ancora oggi rilancia –, bensì gesti che presuppongono la fede, cioè la fiducia nella persona di Gesù (non a caso li invia – cioè, spazialmente parlando, li allontana da sé, li manda via… essi devono dunque fidarsi che qualcosa accada poi, quando Gesù non è nemmeno più con loro). Gesti che dunque non mostrano solo e non mostrano tanto la potenza di Gesù, quanto la sua straripante benevolenza per l’uomo: è un altro modo (oltre a quello verbale) di annunciare il Regno, che infatti non è che la liberazione dell’uomo dal male (cfr. Mt 11,2-6, dove a Giovanni Battista che dal carcere manda i suoi discepoli per chiedere a Gesù se era davvero Lui colui che doveva venire, Gesù risponde elencando ciò che accade dove Lui passa, cioè dove il Regno arriva: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).

In secondo luogo, il fatto che i dieci lebbrosi vengano purificati mentre andavano, porta a riflettere anche su una modalità di guarigione apparentemente anomala, eppure forse molto più consueta, rispetto a quella del gesto miracoloso puntuale. Scrive ancora P. Curtaz: «Anche a molti di noi accade di guarire per strada»… Anche a noi capita di guarire strada facendo… Che è una considerazione che forse, istintivamente, rifiutiamo (perché pensiamo che, se manca la extra-ordinarietà di ciò che provoca il cambiamento della nostra situazione, non si può parlare di “intervento divino” e perché poi – in fin dei conti –, se non c’è extra-ordinarietà, il merito è mio, non di Dio…), ma che in realtà rimanda allo statuto più autentico del rapporto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Questi due attori infatti agiscono e inter-agiscono molto più nelle trame (lente e viscose) della storia, negli interstizi bui della quotidianità che scorrendo costruisce la nostra esistenza, nella consistenza umana che ci ritroviamo tra le mani man mano che passa il tempo, piuttosto che negli interventi estemporanei operati da qualche potenza soprannaturale.

Comunque, al di là delle nostre considerazioni, e tornando al vangelo… ai “nostri dieci” capita di essere purificati mentre andavano. E qui accade l’inedito della vicenda – ciò che non rientra né in qualcosa che ha a che vedere con la tradizione ebraica, né con la consueta “struttura-miracolo” dei vangeli: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Dove ciò che crea discrepanza sono – nuovamente – due elementi: il fatto che solo 1 su 10 torni a ringraziare e il fatto che quell’uno che torna sia un samaritano. Elementi per altro ravvisati entrambi dalle stesse parole di Gesù: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». Con la frase finale «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!», che – posta proprio dopo la guarigione di tutti e 10 i lebbrosi – mette immediatamente in luce come Gesù sottolinei una differenza decisiva tra “guarigione” e “salvezza”.

Dunque dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato… e quell’uno – l’unico tornato a ringraziare – è un samaritano, uno straniero, un eterodosso, un nemico… percepito allora dagli uditori di Gesù come oggi noi italiani (in specie del nord) percepiamo i rumeni, per intenderci. In effetti è come se Luca andasse da un enclave leghista e dicesse che su 10 persone guarite, le 9 padane se ne sono andate per la loro strada (forse a fare una ronda?) e l’unico rumeno del gruppo è quello che è tornato a ringraziare e per questo non è stato solo guarito, ma salvato!

Capite come le coronarie del pubblico siano messe a dura prova… Ma l’impatto emotivo è vincente, perché fa dire a chi ascolta: “ma porca miseria! Noi che siamo i vicini, quelli che dovevano capire tutto, che sanno la bibbia a memoria, che non possono farsi passare il messia sotto il naso senza neanche accorgersi che era lui… ci siam fatti fregare da ‘sto samaritano/rumeno che non va al tempio/in chiesa, appartiene ad un’altra cultura (sottinteso: inferiore) e solitamente non è proprio un cittadino rispettabile…”.

Ecco ciò che accade e che in una certa misura stupisce anche Gesù, che non a caso più volte “ha il pallino” di fare l’esempio col samaritano/a: accade che a volte è più capace di accedere al senso vero di ciò che avviene, qualcuno che non ha lo strumentario (culturale, razziale, religioso…) che noi riteniamo adeguato, rispetto a chi invece ha tutte le carte in regola (la fedina penale apposto, quella ecclesiale linda con tutti i bolli dei sacramenti ricevuti, un matrimonio apposto, un buon lavoro, ecc…).

E questo è insieme un grande monito… per chi si mette tra i giusti, tra quelli “apposto”, tra gli ortodossi… tra quelli che “c’hanno ragione loro…”… (siamo noi, al 90%!).

E un grande conforto, per “tutti gli altri”… perché ci ricorda che per fortuna i pensieri del Signore, non sono i nostri pensieri e le nostre misure non sono le sue misure…

Infine l’ultimo punto rimasto da sviscerare… perché, certo, quello che torna è un samaritano… ma resta il fatto che samaritano o no, qui ne è tornato solo 1… E gli altri 9?

Ma siamo sicuri che la domanda giusta sia chiedersi dove sono andati a finire gli altri 9? Perché a ben guardare non è che hanno fatto qualcosa di diverso da quello che gli aveva detto Gesù… il quale non li aveva invitati a tornare… e non si capisce nemmeno bene – dal testo – perché Gesù se ne risenta…

Forse la domanda più corretta è quella che si chiede: Perché questo è tornato? Perché non gli è bastata la guarigione, ma ha avuto voglia/bisogno/desiderio di tornare dal guaritore… di tornare a vedere la faccia di quello là che dicendogli di andare per quella strada, ha avuto ragione e gli ha regalato la guarigione?

Forse perché ciò che quest’uomo cercava, andando da Gesù, non era solo una cosa, un bene fisico, pur nella sua valenza sociale… ma forse cercava Qualcuno che gli restituisse l’umanità che la lebbra (e la mentalità del tempo) gli avevano tolto. Questo – forse – a differenza degli altri, lo porta ad accedere al circolo della riconoscenza. Infatti: «Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, e scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! Il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… È la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? – gratis, per niente, per amore… Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione» [Giuliano] in cui a ciascuno è garantito lo statuto umano del suo esserci.

sabato 2 ottobre 2010

XXVII Domenica del Tempo Ordinario: «Siamo servi inutili»

«Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?».


Questo il terribile incipit delle letture che la Chiesa ci offre per questa ventisettesima domenica del Tempo Ordinario. Una serie di domande che lascia ammutoliti tanta è la densità della problematica che porta a galla…

Quante volte anche noi, di fronte al male – al male del mondo, al male del nostro mondo – ci ritroviamo con le stesse angosciose (e forse rabbiose) parole: “Perché?”, “Fino a quando?”. Dove la tentazione non è tanto quella (banale) di non credere più a Dio (che pare appunto spettatore muto – indifferente? – delle nostre e altrui sofferenze radicali), quanto piuttosto quella di rinunciare a credere alla sua (e nostra) possibilità di dare senso alla vita, e dunque – di conseguenza – di rinunciare alla Vita stessa… non solo nella forma estrema del suicidio fisico, ma in tutte quelle altre modalità suicide a cui la mancanza di un senso ci induce: la rinuncia all’impegno, lo scoraggiamento (che non a caso santa Teresina, che festeggiamo proprio in questi giorni, diceva già essere peccato, perché contiene in sé il germe dell’infedeltà, cioè della sottrazione di fiducia, di credito dato al Padre), l’avvilimento, la durezza, il cinismo…

È proprio a questo livello che il male fa male: il problema infatti non è tanto (non è solo) il dolore fisico, la sofferenza morale o il dramma esistenziale… a questo livello il problema non è nemmeno la morte (propria o altrui)… ma ciò che tutto questo chiama in causa rispetto al “Cosa siamo qui a fare?”, al senso di tutto ciò per cui impegniamo ogni giorno le nostre energie, le nostre passioni, il nostro tempo, la nostra intelligenza… appunto… è il problema del senso della vita, della sua giustizia. È lì che il male mette il suo pungolo e inizia a rosicchiare la nostra sicurezza, la nostra baldanza, la nostra determinazione, il nostro “andare avanti”… Se si muore, che senso ha vivere? Se la sofferenza dilaga, che senso ha il mio impegno? Se tutto finisce, perché iniziare?
È dentro a questa situazione, fin troppo nota per doverci calcare la mano, che giunge la sorprendente parola profetica – «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» – cui fa eco, nella seconda lettura, san Paolo: «Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio […], uno spirito di forza».

A fronte del rapido sgretolamento della nostra consistenza che il male mette in atto, la risposta della Scrittura è l’energica parola di Dio, che chiede che gli si presti fede: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà», «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio […], uno spirito di forza».

Di fronte al crollo della sensatezza cui il male radicale condanna l’uomo (soprattutto l’uomo moderno e post-moderno, quello per il quale il pungolo del dubbio su Dio fa ormai parte del patrimonio genetico), ciò che si sente è una parola forte… è il richiamo di un Altro – dimenticato nell’angosciosa disperazione che avviene nell’uomo tra sé e sé – a una saldezza impossibile da conquistare, ma raggiungibile nella consegna alla Sua parola.

Non si esce dal dramma dell’insensatezza: è impossibile per l’uomo fondare la propria consistenza. Ma nella fiducia alla parola di un Altro (che biblicamente parlando non è mai né una fede cieca, né una richiesta di dimostrazione, ma sempre la rivelazione di una credibilità di fronte alla quale decidersi) sì: lì diventa possibile una fondatezza, una solidità, una fortezza.

Ecco cosa chiedono i discepoli: «Accresci in noi la fede!». Infatti «solo finché è sonnolenta e superficiale ed estranea alle passioni profonde, la fede non ha problemi, non ha crisi, perché fa solo da vernice protettiva ad una dinamica impersonale, fondata su dottrine o valori o convinzioni impermeabili… funzionali all’io. Chi frequenta i sotterranei bui dell’anima propria e altrui, sa che lavora sul baratro tra speranza e disperazione e rischia molto, per sé e per gli altri (come gli infettivologi o i radiologi nel loro mestiere…). E allora, quando si smontano i pezzi delle nostre costruzioni, e vanno in frantumi le torri delle nostre aspettative, fondate sulla sabbia, quando attorno a noi la gente si svuota dentro… allora ci va in angoscia, si arriva al limite del proprio equilibrio - e sgorga la preghiera disperata verso Lui, dal profondo dell’anima, dalle ceneri della nostra fede ormai spenta: (letteralmente) aggiungi fede! perché la nostra ha esaurito le sue possibilità» [Giuliano].

Ma perché proprio a questo punto l’evangelista sceglie di mettere quelle parole sul servo inutile?

Perché, cioè, proprio nel momento in cui ciò che emerge dalla trama della vita dei discepoli è l’esaurimento delle possibilità della propria fede, tanto da chiedere disperatamente di accrescerla, Gesù fa un discorso apparentemente così duro? Sostanzialmente: perché quando i suoi (noi?) hanno bisogno di gratificazione, usa parole ruvide? Perché in un momento di vuoto, cita un esempio stroncante?

Forse perché vede meglio di tutti… o – diremmo noi col linguaggio di oggi – “conosce i suoi polli”…

Il passaggio logico che forse il testo lascia implicito è questo: a fronte del discorso che abbiamo fatto, immaginiamoci il proseguimento della vita di colui che decide di dar credito a quello spirito di forza di cui parla Paolo; immaginiamoci di noi, che dentro alla tentazione dell’insensatezza che il male ci instilla troviamo la consistenza di una Parola a cui af-fidarci… Cosa vediamo?

Certo la rinascita interiore, la luce che penetra negli interstizi delle nostre tenebre, l’ossigeno che torna a dilatare i nostri polmoni… ma insieme anche l’ostentazione della nuova sicurezza, la presunzione di essere finalmente “apposto”, l’irriducibile prerogativa di essere i difensori della verità, la prevaricazione sulla libertà altrui… Dove al centro torniamo ad esserci noi e non Colui che è la Parola affidabile del Padre…

Ecco il perché di quella frase (apparentemente) dura di Gesù: «“Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”»… perché la ri-focalizzazione su ciò che dà senso, su chi è a fondamento della sensatezza della nostra vita è un’operazione sempre da ri-attuare. Noi «siamo servi normali! senza nessun merito. Sembra una espressione dura, che lo schiavo lavori nei campi e con le pecore, e poi torna a casa di corsa e prepara cena per il padrone, lo serve a puntino… e poi finalmente, se gliene avanza il tempo, mangia qualcosa anche lui (gli avanzi). E invece, è normale! chi non ha conosciuto qualche mamma, che allo stesso modo, dopo aver fatto tutto il lavoro e servito da mangiare a tutti … se le domandi: come fai a resistere? ti risponde: Così è una mamma! non ho fatto niente, se non quello che dovevo fare. Così, nella nuova comunità cristiana che il Signore sogna per i suoi discepoli, dovremmo aver imparato a fare tutto “perché siamo di casa”» [Giuliano] e lo siamo “per grazia” (non per merito: e questo dovrebbe generare benevolenza…), così come “di casa” sono tutti coloro a cui l’affidabilità di quella parola non ha ancora convertito la vita e di cui noi – con la tenerezza, che sola rende ragione del messaggio che ha da portare – siamo i servi, perché anche loro non si “suicidino”, ma Vivano.

venerdì 24 settembre 2010

XXVI Domenica del Tempo Ordinario: Meglio essere ricchi o poveri?

La parabola del vangelo di Luca che la Chiesa ci propone in questa ventiseiesima domenica del Tempo Ordinario, è una di quelle che merita una spiegazione previa. Infatti il riferimento al povero Lazzaro «portato dagli angeli accanto ad Abramo» e al ricco epulone che stava «negli inferi fra i tormenti […] lontano», ci porta subito a pensare a quelli che noi abitualmente chiamiamo “paradiso” e “inferno” e rischia di farci fraintendere il tutto.


Sentendo infatti parlare di aldilà, di inferno e paradiso, di angeli e di tormenti, il contesto culturale cattolico in cui siamo immersi da quando nasciamo e cresciamo, fa scattare come un meccanismo automatico per cui non ascoltiamo più cosa dice davvero la parabola, ma ci fissiamo sul “già noto”, sulla necessità di comportarsi bene per “meritarsi” il paradiso, sull’imperativo di evitare il male per non finire all’inferno, identificando con “l’essere buoni” o “l’essere cattivi” qualcosa che da sempre ci dicono: una rigorosità morale in ambito sessuale, una mortificazione della nostra spontaneità, una puntualità legalistica nella partecipazione alle celebrazioni sacre, ecc… ecc… ecc…

Questa prospettiva però – che probabilmente ha avuto una sua ragion d’essere in passato – oggi risulta un po’ riduttiva: ciò che infatti all’uomo odierno non risulta chiaro è il perché (o se volete il per chi) di tutti questi moniti e accorgimenti. In una società in cui l’aldilà non è più dato per scontato – come invece avveniva un tempo – la grande preoccupazione dei più infatti è molto più legata al “come tirare a campare nell’aldiqua” piuttosto che al come porsi per l’aldilà.

Questa prospettiva, che forse qualcuno giudicherà di cattivo auspicio, sottolineando come si sia persa la tensione per l’infinito, l’eterno, la cura dell’anima, ecc., in realtà ha la sua buona dose di bontà nella misura in cui arriva forse a cogliere meglio la prospettiva autentica con cui Gesù intendeva la parabola.

La preoccupazione di Gesù infatti – ad una lettura scevra dai nostri preconcetti sul paradiso e sull’inferno – non è affatto quella di delineare un’escatologia: qui Gesù non sta dicendo che c’è l’inferno, che è fatto in un determinato modo, che alcune tipologie di persone sicuramente ci finiranno… La sua preoccupazione è per la vita nell’aldiqua!
Certo usa la cultura del suo tempo – che implica una certa visione del dopo morte – facendo riferimento agli inferi e agli angeli, ma con lo scopo di parlare della storia di questo nostro mondo, non di quell’altro.

È come se, a partire dalla prospettiva finale della vita di ciascuno, provasse a illuminarne il percorso, fissando quindi l’interesse non sulla meta, ma sul cammino da fare: come un atleta che immagina il traguardo, ma per sapere come allenarsi per correre i 100 m che precedono la linea finale; o come un regista, che a partire dall’idea di “lieto fine” che vuol dare al suo film, pensa a come raccontarne la trama…

Questo va detto, perché altrimenti le parole del vangelo di questa domenica (che – come vedremo – non sono per niente scontate rispetto alla nostra idea di aldilà e aldiqua), rischiano di scivolarci via senza nemmeno interpellarci, perché tanto – pensiamo – dell’escatologia cristiana sappiamo già tutto: sappiamo dell’inferno in cui vanno i cattivi, del paradiso in cui vanno i buoni, del purgatorio per i “così così” e di cosa si deve o non si deve fare per arrivarci.

In realtà, a far lo sforzo di lasciar da parte tutto quanto “già sappiamo” e di andare a leggere bene quel che dice Gesù, un primo grosso pregiudizio cade: non si dice che il ricco fosse malvagio, né che il povero Lazzaro fosse buono. Si dice solo che l’uno «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» e che l’altro «stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe».

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che la colpa del ricco sta nel fatto che durante tutta la sua vita non ha fatto nulla per questo povero (non gli ha fatto l’elemosina!), pur sapendo della sua esistenza (era proprio lì, fuori da casa sua), ma in tutta la parabola non si fa cenno a questa colpa; perfino quando Gesù mette in bocca ad Abramo le parole di spiegazione per il ricco della situazione in cui si viene a trovare dopo morto («Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti») non v’è riferimento alcuno alla “mancata elemosina” o al fatto che il problema stia nel non essersi accorto e preso cura del povero seduto alla sua porta.

Queste spiegazioni – pur legittime – ce le diamo noi, le ha date per decenni l’omiletica, ma in sé la parabola non vi fa cenno: la parabola cioè non moralizza il problema, non si concentra su “che cosa ha sbagliato il ricco per finire all’inferno”, che invece a noi interessa molto, perché – come tentavo di dire prima – la nostra lettura è sempre inficiata da questa prospettiva: nel vangelo c’è scritto cosa fare e non fare per non andare all’inferno; dove a predominare è sempre la logica della paura di Dio (che mi può spedire all’inferno) e la “giusta” ansia di capire come non farlo arrabbiare…

Il vangelo invece non segue questa prospettiva: il cosa fare / cosa non fare per non andare all’inferno non è la sua preoccupazione; la paura di Dio e la relativa ansia sul da farsi per non farlo arrabbiare, non rispecchia l’immagine del Padre che Gesù tratteggia. Il vangelo vuol dire altro, Gesù vuole dire altro! Qualcosa che lascia del tutto in secondo piano il “da farsi” e vuole piuttosto concentrarsi sull’ingenerare in chi lo ascolta una logica diversa, una prospettiva, una mentalità, un volto di Dio e di uomo diversi.

Non a caso – come dicevo – la questione non sembra essere morale. Il ricco è all’inferno non perché è cattivo, ma perché è ricco. E il povero è con gli angeli, non perché era buono (non si sa, stando al testo!), ma perché era povero.

Ciò che emerge allora pare essere non tanto una (o più) azioni malvagie, una (o più) azioni buone, ma l’ingiustizia radicale dell’essere ricco: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti». Una frase che sembra quasi portare a dire: era meglio nascere povero e patire per un po’ (nell’aldiqua), ma godere per sempre (nell’aldilà), che nascere ricco e godere per un po’ (nell’aldiqua) e patire per sempre (nell’aldilà).

Siccome però – come mostrato prima – a Gesù sembra interessare poco in questa circostanza l’aldilà, bisognerebbe quasi arrivare a dire, semplicemente: meglio nascere povero, che nascere ricco nell’aldiqua: non perché si avrà il contraccambio nell’aldilà, ma perché nella visione di Gesù della storia dell’aldiqua (guardata, sì, a partire dalla fine, ma solo per averne il giusto punto prospettico) è meglio essere poveri.

Questa è la paradossalità della parabola. Nessuno di noi infatti direbbe questa cosa così nuda e cruda: noi – appunto – diremmo “è meglio essere poveri nell’aldiqua, per essere ricchi nell’aldilà”; oppure “il problema ricchi-poveri andrebbe risolto non con l’eliminazione dei ricchi, ma con l’eliminazione dei poveri”, e via discorrendo…

Gesù invece “entra a gamba tesa” su questi giri di parole e dice “meglio essere poveri”.

Tra l’altro non lo dice solo qui, di modo che uno possa sempre pensare che magari è stata una svista dell’evangelista, o del copiatore, o del traduttore, o dell’interprete… ma lo ripete continuamente: basti guardare alle beatitudini («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio», Lc 6,20; tra l’altro – a fugare ogni dubbio – unica beatitudine di Luca al presente, onde evitare che “regno di Dio” voglia dire “paradiso”), al giovane ricco («Il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze», Mt 19,22), o a tutti i passi in cui la ricchezza è identificata come un ostacolo alla bellezza della vita per l’uomo (questo è il regno di Dio!): «Non potete servire Dio e la ricchezza», Mt 6,24; «la seduzione della ricchezza soffoca la Parola ed essa non dà frutto», Mt 13,22; «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio», Mt 19,24… Senza contare che lui per primo visse da povero…

Come a dire che dentro a questa categoria dell’umano che noi istintivamente rifuggiamo, c’è qualcosa che invece è in sintonia col “mondo come Dio lo pensa”, con l’idea che Lui ha della nostra felicità, della nostra “buona riuscita”, della pienezza della vita. E al di là di tutte le poesie che si possono fare sulla povertà, sulla libertà interiore che essa “regala”, ecc… credo che l’elemento decisivo stia nella restituzione della qualità originaria e autentica della vita dell’uomo cui la povertà fa accedere, a renderla così ben vista agli occhi di Dio.

L’essere ricco infatti è la grande illusione per l’uomo, è il grande inganno sulla sua vera realtà, su chi è lui veramente: cioè povero e dunque inevitabilmente necessitato da un affidamento… cioè figlio. Illudersi di non essere poveri, fa dimenticare di essere figli, che – avendo un Dio che è Padre – vuol dire condannarsi all’infelicità.

«L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale» [A. RIZZI, Dio in cerca dell’uomo].

sabato 18 settembre 2010

XXV Domenica del Tempo Ordinario: Fatevi degli amici con la disonesta ricchezza

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa venticinquesima domenica del Tempo Ordinario, è uno di quei testi che va letto diverse volte, prima che riesca a convincere di essere davvero tratto dal Nuovo Testamento – «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta» (?!?) – e prima che si colga bene quel che vuole arrivare a dire: la spiegazione della parabola sembra infatti continuamente correggersi… in principio c’è una lode per l’amministratore disonesto («Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza»), ma subito sembra che egli sia da far rientrare nella categoria dei “figli di questo mondo” in opposizione ai “figli della luce” («I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce»); vi è poi l’invito sconcertante «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta», seguito però subito da un’affermazione che pare screditare la disonestà: «Chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».


Dunque bisogna essere disonesti o no?!?

In altre parole… Cosa sta dicendo il Signore in queste sue parole che Luca riporta?

Io credo che innanzitutto sia necessario chiarirsi le idee riguardo alla “disonestà” chiamata in causa, perché i diversi accenti che si possono dare a questa parola sono quelli che fanno oscillare in un verso o nell’altro il senso del nostro brano.

Noi infatti immediatamente attribuiamo alla locuzione “disonesta ricchezza” tutta una gamma di riferimenti alla criminalità che quotidianamente giunge alle nostre orecchie: furti, corruzioni, affari illeciti, mafie, lobby, ecc… ecc… ecc… E l’obiezione che ci nasce istintiva è quella per cui ci vien da dire: Ma il Signore sta elogiando questi signori, questi modi di stare al mondo? Con una certa trepidazione nel rispondere perché, da un lato è ovvio che “Così non può essere”, ma dall’altro non si sa bene come collocare le parole di Gesù («fatevi degli amici con la ricchezza disonesta»), che sembrano piuttosto evidenti e “smontabili” sono attraverso dei gran giri di parole che però ci lasciano con un pugno di mosche in mano e tanta confusione…

Ciò che, però, potrebbe indirizzare la nostra riflessione è, come si accennava, il tentativo di comprendere un po’ più in profondità l’espressione “disonesta ricchezza”, soprattutto trovandole un senso che sia coerente anche con il prosieguo del discorso, quando addirittura si invita alla fedeltà nella ricchezza disonesta («Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?»), che sembra un’insensata antitesi – come si fa ad essere fedeli (dunque in qualche modo “onesti”) nella disonestà? – ma che lascia già trasparire che la nostra immediata associazione alle attività criminali non è forse quella più corretta…

Ciò che infatti emerge soprattutto da quest’ultima menzione della “disonesta ricchezza” è il suo essere in antitesi non con quella “onesta”, ma con quella “vera”; a dire che in gioco non vi è la legalità o meno di un certo atto, ma l’intero impianto dei rapporti umani: la “disonesta ricchezza” non è qui il frutto di un furto (comunque esso sia inteso), ma la logica mondana dell’impostazione relazionale tra gli uomini e le cose e tra gli uomini tra di loro. La “disonesta ricchezza” è l’ingiusta economia umana, dove “economia” ha il respiro ampio che proviene dalla sua etimologia.

Da questo punto di vista nella “disonesta economia” non si può decidere di entrare con un atto della propria volontà che deliberatamente si esprime per la scelta di commettere azioni illecite e criminose… più radicalmente nella “disonesta economia” ci troviamo immersi… la ereditiamo e contemporaneamente la rilanciamo: «La ricchezza infatti è, per definizione, sperequazione. Ogni bene che hai in più dell’altro, gli è tolto, e diventa indigesto! Questa ingiustizia non è rimediabile neanche con il crisma cristiano. […] Nessuno può sfuggire alla necessità di gestire i suoi beni, piccoli o grandi che siano. Beni economici, ma non solo, forse soprattutto beni di mente e di cuore… che sono un immenso privilegio, visto che tanta gente ne patisce la mancanza. Il profeta ha parole terribili contro chi compra i poveri come merce e li calpesta… E nella Parola di Dio ci sono le risposte migliori che l’uomo ha scoperto nella sua storia e possono illuminare la sua “amministrazione”. Ma non risolvono il problema della scadenza del nostro impegno, che arriverà, quando non avremo ancora finito di “aggiustare” l’ingiustizia in cui siamo immersi. La sofferenza, la miseria, la fame, ci saranno ancora, dopo i nostri irrinunciabili tentativi di bene!» [Giuliano].

È dentro qui, dentro a questo scenario che l’amministratore della parabola viene lodato, per la sua saggezza («è la stessa parola usata per il comportamento “saggio” di chi mette fondamenta solide alla sua casa – Mt 7,24 –, per le vergini “sagge” che si premuniscono di olio – Mt 25,2ss… Per chi capisce, dunque, il cuore del messaggio evangelico e cerca di “adeguarsi” alla situazione completamente nuova che Gesù è venuto a portare» [Giuliano]): egli, infatti, dentro ad una situazione in qualche modo irrisolvibile (che per lui era la perdita dell’amministrazione – «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare» – e per noi è la “disonesta ricchezza” in cui siamo immersi come singoli, come Chiesa, come umanità) adopera l’unico criterio d’azione “vero” (in linea cioè con la “ricchezza vera” che il Signore, parlando, metteva in antitesi con quella “disonesta” degli uomini), che è l’amicizia: «L’amministratore adesso ha l’obiettivo di far felici i lavoratori. Finalmente si occupa del loro bisogno(dei loro debiti impagabili) e non della loro più o meno insufficiente produzione. Il fattore sa che la dinamica del dono è contagiosa e inizia un circuito di benevolenza nel quale dovrà per forza essere coinvolto anche lui, e troverà così anche lui la casa e la sicurezza che ha perduto. Questo amministratore è saggio. Ha capito bene, al di là dell’apparente imbroglio, le vere intenzioni del suo Padrone. Sa che, alla fine, sarà “elogiato”. Ha trasformato il suo mestiere e tutta la sua vita sulla misura e sulla forma della vita del suo Signore: ha messo tutto il suo piccolo potere, la sua creatività e il suo impegno …a farsi degli amici, perché l’amicizia e la solidarietà sono gli unici strumenti validi che non patiscono la scadenza del mestiere di vivere quaggiù. […] Solo così si capisce chi è veramente il nostro Padrone definitivo e quale strana logica antieconomica hanno praticato, tra lui e suo Padre. Questi, rimproverato, perché coccolava troppo il figlio scappato di casa. Rimbrottato, perché pagava uguale gli operai dell’ultima ora e quelli della prima. Gesù poi lasciava sprecare un balsamo che valeva centinaia di euro. Prevedeva una gerarchia in paradiso con in testa le prostitute e i pubblicani…, sosteneva che la roba si accumula e centuplica a darla via, non a tenerla per sé … Ecco l’antidoto, il fermento evangelico, il vino nuovo… Che non ci è dato per sostituire il nostro impegno di giustizia, ma per trasformare il mondo sempre relativamente ingiusto, in un luogo in cui l’amore e la misericordia, senza calcoli, siano l’estrema misura di tutti i rapporti» [Giuliano].

lunedì 13 settembre 2010

Sole Nero



La notizia è alluccinante... mi chiedo cosa aspettano i cristiani a mandare nei bassifondi della storia tanta demenziale arroganza!
Di cosa parlo? Cliccate qui!

domenica 12 settembre 2010

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il bisogno di sicurezza

Le letture che la Chiesa ci offre per questa ventiquattresima domenica del Tempo Ordinario, oltre ad essere molto lunghe, hanno anche un contenuto talmente denso, che su di esse bisognerebbe stare molto più che una settimana. Molte infatti sono le piste di indagine che esse dischiudono e su cui sarebbe bello avventurarsi, ma inevitabilmente, a me, qui, è possibile percorrerne solo una, quella che subito mi ha fatto sussultare, leggendo: e cioè l’umano bisogno di sicurezza che fa da sottofondo a tutti i testi proposti.

Leggendo il brano dell’Esodo infatti – un brano già chissà quante altre volte ripercorso – per la prima volta mi è venuto da guardare le cose non dal punto di vista di Dio – col quale così facilmente e impropriamente ci sentiamo solidali nell’indignazione per il peccato altrui –; non dal punto di vista di Mosè – col quale altrettanto facilmente e altrettanto impropriamente ci sentiamo solidali nell’eroismo da “salvatori della patria” o dell’anima altrui –; ma dal punto di vista di chi stava giù dal monte, del popolo peccatore ed idolatra. E mi è venuto da dire: “Io questi qui li capisco proprio!”.

Sono nel deserto (metafora fin troppo chiara di tanti dei momenti della nostra vita), Mosè è salito sul monte a colloquio col Signore, ma tarda a scendere (quindi anche chi fino a quel momento gli aveva suscitato – in maniera più o meno convincente – un po’ di sicurezza, non c’è)… è normale che si spaventino e cerchino – in un terreno che gli frana inesorabilmente sotto i piedi – di trovare qualcosa che “tenga”, che sia (o almeno sembri) solido… qualcosa che dia sicurezza… qualcosa a cui attaccare la vita, la propria vita, che altrimenti pare dissolversi nel niente. Ecco perché il vitello! Ed ecco perché io li capisco così tanto…

Noi forse non facciamo più idoli d’oro, ma il bisogno di sicurezza e di trovare qualcosa a cui attaccare la vita, che altrimenti – ci pare – si sfalda, è il medesimo di allora: da questo punto di vista i millenni non hanno scalfito l’animo dell’uomo, e – ora come allora – attraversiamo questa storia con un crescente senso di inquietudine e paura, che ci porta a mietere vittime tra le cose che ci circondano, le persone, Dio stesso. Tutto diventa una possibile stampella per il mio incedere zoppicante, ferito originariamente dalla consapevolezza che un giorno finiremo stesi e immobili in una cassa; tutto diventa possibile cibo, da assumere voracemente per calmare almeno un po’ quello stomaco affamato di infinito, di assoluto, di totale, che ci hanno dato purtroppo con un difetto di fabbrica (ha dentro un buchino, che – come per i palloncini di plastica – non gli permette mai di essere pieno); tutto diventa mezzo per il mio bene, la mia sicurezza, la mia pace, la mia salvezza… perfino Dio…

Esattamente come per quel fratello maggiore della parabola, che non era diverso – nella struttura di fondo – da quell’altro che tanto biasimava: mentre il più giovane infatti, aveva messo la sua sicurezza nella sua spavalderia “da giovane”, appunto – quindi nell’avventura di prendere i suoi soldi, di uscire di casa e andare sulla sua strada – lui aveva perseguito lo stesso scopo – di possedere una sicurezza esistenziale – nel seguire a puntino la legge paterna, sperando così – come si evince bene dalle sue rimostranze («Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici») – di averne qualcosa in contraccambio, qualcosa su cui – appunto – appoggiarsi, sostenersi… qualcosa di sicuro da avere.

Ciò che distingue i due fratelli e che istintivamente ci rende più simpatico quello scapestrato, è che la ricerca di sicurezza di quest’ultimo, anzi la sua certezza di trovarla fondandosi solo su se stesso, fallisce (come la nostra)… mentre il primo vive ancora nell’illusione di bastare a se stesso… nell’illusione che i suoi calcoli alla fine si riveleranno giusti…

Anche noi in alcune fasi della vita ci siamo sentiti (o ci sentiamo) “giusti” come il maggiore, coi “calcoli che tornano”, che devono tornare, altrimenti ce la prendiamo sul serio anche noi (!) con gli altri; in altre invece ci siamo sentiti come il piccolo, sperimentando davvero di non farcela e comprendendo come la sicurezza fondata su noi stessi (per mezzo degli altri, cioè che ha gli altri come mezzi) non tiene. È come il vitello d’oro. È un’illusione: promette vita, ma porta alla morte.

Sono come due anime entrambe presenti in ciascuno e come sempre poste in circolarità l’una con l’altra… prima del “fallimento” delle nostre illusioni di bastare a noi stessi, credevamo davvero in esse… e – purtroppo – anche dopo aver sperimentato il loro “fallimento” torniamo a crederci, quando – ricomposta un po’ la ferita della “rovina” precedente – ci rimettiamo a costruire qualcosa in cui ritorniamo sempre ad essere noi i protagonisti… fino al prossimo rovinare per terra come un castello di carte…

La parabola mostra come ciò che può arrivare a rompere questa circolarità sia la presa di coscienza (mai definitiva e sempre da riportare a consapevolezza) che l’esperienza del non bastare a se stessi non è contingente, non è “perché stavolta mi è andata male, ma la prossima volta faccio meglio i calcoli”… ma è la condizione esistenziale della nostra vita, che difatti ha la sua chiave di volta nell’affidamento ad un altro: «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre». Dove la differenza sta appunto nel riconoscimento dell’impossibilità di darsi una sicurezza da sé – foss’anche usando gli altri, le altre cose, Dio come mezzi per sé – e nel consegnarsi nelle mani di un Altro.

È sottile la differenza tra consegna e utilizzo dell’altro per fondare la propria sicurezza (anche linguisticamente parlando), soprattutto nella relazione con Dio, ma la questione sta tutta qua, come ben dice Paolo nella seconda lettura di questa domenica: «Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti (la vecchia traduzione diceva: sicura!): Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io»; ma chi la accoglie – chi dunque vince la paura di non tenersi in mano – stando al Vangelo, non trova l’abisso del dissolvimento nel niente, ma un padre che «Quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. […] disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciano a far festa».

giovedì 9 settembre 2010

L'eletto

di Giovanni Sartori in Il Corriere della Sera

Lo spettacolo della politica italiana è caotico e disperante. In tanto caos l’unico punto fermo che ci resta è la Costituzione. Ma anche la nostra Costituzione viene sempre più «forzata» da letture che la distorcono.

Cominciamo da un dato incontestabile: le democrazie moderne non sono democrazie dirette. Tali furono la democrazia ateniese (che già Aristotele riteneva una forma cattiva del «governo dei molti »), nonché le piccole democrazie fiorite, e presto sfiorite, nel Medioevo; e tali restano le democrazie cittadine di piccole comunità. Ma la democrazia «in grande» degli Stati territoriali non sono mai state, né possono essere, democrazie dirette. Sono invece democrazie indirette fondate sul principio della rappresentanza, e perciò democrazie rappresentative. Il loro meccanismo è che il demos, il popolo, elegge in quanto titolare del potere assemblee di rappresentanti che a loro volta esercitano il potere tra una elezione e l’altra. E la rappresentanza in questione viene configurata, in tutte le costituzioni liberal-democratiche, così: che l’eletto rappresenta la nazione (non i suoi elettori) «senza vincolo di mandato ». Questa formula risale alla rivoluzione francese del 1789 e stabilisce la differenza tra rappresentanza di diritto privato (per esempio, il rapporto tra me e l’avvocato che mi rappresenta) e rappresentanza di diritto pubblico, e cioè la rappresentanza politica.

I vari parlamenti medievali e delle monarchie assolute erano, appunto, parlamenti di delegati che trattavano con il sovrano sulla imposizione fiscale. Il noto principio no taxation without representation, niente tasse senza rappresentanza, si fondava ancora sulla rappresentanza di diritto privato e non prefigurava in nessun modo una democrazia rappresentativa.

Eppure oggi Berlusconi, Bossi e tanti altri ancora invocano un mandato che la Costituzione espressamente vieta. Perché? A monte la colpa è del Presidente Ciampi che lasciò passare, senza fiatare e senza capire il problema, l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Il che è servito soprattutto a Berlusconi per rivendicare di essere scelto direttamente dall’elettorato. Questa rivendicazione non è comprovata dalla contabilità elettorale, visto che i voti per il suo partito ammontano, più o meno, a un terzo dell’elettorato. Ma il punto è soprattutto che la cosiddetta «scelta» del premier non è, assolutamente non è, una scelta. Una scelta presuppone che l’elettore abbia una alternativa, e quindi richiede che il nome del candidato premier stampato sulla scheda possa essere approvato oppure disapprovato (prevedendo due caselle del Sì o del No), dal votante. Il che non è.

L’idea del mandato si trasforma poi nella tesi che il governo e la maggioranza di governo sono stabiliti dagli elettori, e pertanto che il parlamento non possa creare o sostenere governi diversi da quello indicato dagli elettori. Ma allora a cosa serve il sistema parlamentare? La sua forza risiede proprio nella sua flessibilità, nella sua capacità di auto-correzione. È vero che questa flessibilità può essere abusata; ma questo abuso può essere impedito, per esempio, dal voto di sfiducia costruttivo del sistema tedesco. Altrimenti si cade in un sistema di «rivotismo continuo » che è il peggiore di tutti. E che nemmeno è consentito — sia chiaro — dai sistemi presidenziali o semipresidenziali di tipo francese. Dicevo che l’unico punto fermo che ancora ci resta è la Costituzione e un sistema costituzionale. Che oggi è insidiato da un infantile populismo costituzionale e da un «direttismo» sconfitto da duemilacinquecento anni di esperienza. Sarebbe l’ultima sciagura.

venerdì 3 settembre 2010

European Discalced Carmelites Students Meet in Malta

Raduno Carmelitani Scalzi - Studenti europei - Malta 28 agosto-2settembre 2010






Conferenza Padre Generale

XXIII Domenica del Tempo Ordinario: «Non può essere suo discepolo» chi non decide (di sé) di essere suo discepolo

Le letture che la Chiesa ci offre in questa ventitreesima domenica del Tempo ordinario, sono tutte molto interessanti e – ciascuna a suo modo – davvero capaci di smuovere le viscere della nostra pancia, anche se ad un prima scorsa non appare immediato il filo conduttore che le lega.


Soprattutto, un po’ slegato dai brani della Sapienza e del vangelo, appare il testo di Paolo a Filèmone – come è giusto che sia, dato che la prassi liturgica tende sempre ad associare la prima lettura col vangelo e proporre altri spunti di riflessione attraverso le lettere paoline e non. Eppure su queste poche righe – che fanno sì che questa lettera propriamente non sia nemmeno ricordata come una lettera, ma come un “biglietto” – non si può soprassedere a cuor leggero, perché – forse proprio per il suo contesto così particolare («Il biglietto indirizzato da Paolo a Filèmone è sostanzialmente una lettera di raccomandazione. Uno schiavo di nome Onèsimo, fuggito dal padrone Filèmone, incontra Paolo che sta in prigione; l’apostolo gli annuncia il Vangelo e lo rimanda al suo padrone con un breve scritto», La sacra Bibbia, nuova traduzione CEI) – lascia emergere un tratto della personalità di Paolo che in altri scritti resta più in ombra: frasi come «Ti prego per Onèsimo, figlio mio», «lui che mi sta tanto a cuore», «Avrei voluto tenerlo con me», «come fratello carissimo, in primo luogo per me», insieme al fatto che decida di non “scavalcare” Filèmone, avendone pure in qualche modo il diritto come apostolo, ma dicendogli addirittura «non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario», lasciano trasparire il modo in cui Paolo intendeva il rapporto fra fratelli (fra cristiani, cioè fra discepoli – seppur della seconda ora – di Gesù) e alcuni dei pilastri su cui esso si fondava: l’amore, inteso nel suo senso forte di farsi carico del destino altrui; la corresponsabilità… “pilastri” che – forse – anche noi, come singoli e come Chiesa, dovremmo una volta per tutte deciderci a scegliere come elementi fondanti le nostre relazioni, ancora spesso così incastrate invece in inutili pacche sulle spalle o in un “ricordiamoci nella preghiera”, cui non fa seguito il coinvolgersi nella sorte dell’altro, l’abitare la sua solitudine, il considerare i “suoi” problemi come i “nostri” problemi… per non parlare della corresponsabilità…

E credo che proprio a questo livello (quello cioè del chiedersi “Che cosa nella nostra vita di singoli e di Chiesa abbiamo deciso di scegliere?” – dunque: “Chi abbiamo deciso di essere?”), possiamo lasciarci interrogare dalla riflessione che il libro della Sapienza e il vangelo di Luca istituiscono.

La prima lettura, infatti, in termini incredibilmente vicini alla sensibilità dei nostri giorni, va a toccare proprio il nocciolo duro del pensare umano: «Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? […] A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?»; che – in termini più laici – potremmo forse tradurre così: “Quale uomo può afferrare la verità della vita? Il suo senso? Io, come posso afferrarla? Cosa devo fare? Come voglio spendermi? Per cosa vale la pena farlo? Per cosa, che non mi si sgretoli in mano come un castello di carte sul letto di morte? Chi devo essere? Chi voglio essere?”…

Ecco il punto centrale… di Paolo, della Sapienza, di Gesù… “Chi abbiamo deciso di essere?” E: “Su quale base?” – domanda forse ancora più importante, perché invera o falsifica la prima… “Su quale base?” se è così evidente che «Questa sapienza, sempre ambita dall’uomo, è biblicamente irraggiungibile se non è lo stesso spirito di Dio dall’alto, a spiegarci cosa Dio stesso (non le nostre proiezioni su di lui) vuole veramente» [Giuliano]: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?». Nessuno! Appunto… perché non c’è progetto umano (su sé, sugli altri, sul mondo, su dio…) che tenga, se costruito a partire da sé, perché «i ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni»… perché l’uomo non è assoluto… “ab-solutus”, sciolto da tutto: dalla storia, dalla carne, dalla «faticosa e fragilissima elaborazione del pensiero nella refrattarietà della materia», dalle «cornici culturali di lettura e interpretazione della realtà, che incapsulano il pensiero in una tenda invalicabile, più che le pareti di argilla di un vaso» [Giuliano].

“Per fortuna”, “ad un certo punto”… a Dio è venuto in mente di farsi conoscere lui, di rivelarci lui la sua identità (di Padre) che contemporaneamente svelava la nostra (di figli)… così che – come recita la mai troppo citata DV2 – «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione».

Da allora la “base”, su cui decidere chi essere, non può essere che quella «misurata e collaudata sull’avventura umana di Gesù» [Giuliano]!

Da questo punto di vista, il brano di vangelo di Luca che la Chiesa ci propone questa domenica, è davvero emblematico, perché tratta esplicitamente del «criterio evangelico di maturazione del discepolo (“se uno viene dietro di me!”): Nel suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù è seguito da “molte folle” di aspiranti discepoli, ancora inconsapevoli del senso e della meta del viaggio. In questo percorso verso la sua fine, ha già spiegato in vari modi la sua identità. Ora si gira verso la gente, e proclama in modo estremamente crudo e sintetico in cosa consiste questa sapienza dall’alto! Non è una dottrina, ma un atteggiamento globale verso la vita, che si può imparare perseguendo, nel contesto della propria storia, la presenza del Padre, divenuta visibile in Gesù. In lui, infatti, finalmente, “possiamo immaginare cosa vuole il Signore”, “possiamo conoscere la sua volontà”, perché Dio si è reso visibile in Gesù di Nazareth» [Giuliano].

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»… «chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»…

Ecco qual è per Gesù il criterio “crudo e sintetico” dell’essere discepoli, cioè del decidere chi essere: andare dietro a lui, cioè incarnare la sua logica, tenere il suo sguardo (sulle cose, sulla gente, su se stessi, su Dio), vivere la sua dedizione… anche quando questo vuol dire incontrarsi o scontrarsi con prospettive di altro tipo – fossero anche quelle di chi amiamo di più (padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la nostra vita; quest’ultima sicuramente la più dura da “contra-stare”) – anche quando questo vuol dire rimanere soli…

È in questi “momenti topici” della nostra vita – quando appunto siamo soli, quando non ci sentiamo capiti, quando siamo ritenuti “folli” dai “nostri” – che radicalmente ci è chiesto di scegliere chi essere (per lui o contro di lui), ma non perché la nostra vita sia segnata da gesti eroici, ma perché quei momenti misurano quanto la nostra quotidianità sia stata istruente per fronteggiare anche momenti così decisivi. È la quotidianità della dedizione infatti che ci insegna «per progressiva modifica dell’atteggiamento profondo di fronte alla vita» [Giuliano] ad avere una tenuta (che “tiene” appunto) anche nei momenti dove il nostro dramma storico si fa più tagliente.

È stato così anche per Gesù, che non è sfuggito dal Getzemani, ma è salito in croce, non perché lì si è “improvvisato eroe”, ma perché per tutta la vita che ha preceduto quel momento, aveva abilitato se stesso alla dinamica della consegna.

Oppure – prendendo la questione per un altro verso, non alternativo, ma in circolarità con questo: le “situazioni limite” in cui amare di più lui, di tutto il resto, non sono “situazioni limite” perché disomogenee alla quotidianità, ma perché segnalano in maniera evidente quello che è sempre all’opera nella quotidianità, e cioè che c’è una scelta su chi vogliamo essere perennemente presente nelle piccole e apparentemente insignificanti decisioni e modi di essere quotidiani… sono come punti luce che illuminano il prima e il dopo: ogni attimo della vita ha infatti in sé la caratura pregnante del custodire la decisione su di sé. In ogni scelta, modo di essere, di reagire, di sentire c’è in gioco il “chi stiamo decidendo di essere”… così che se è vero che nella riflessione decidiamo chi essere e nella quotidianità lo attuiamo (o tentiamo di farlo) è anche vero che vivendo l’ordinarietà della vita costruiamo il “chi vogliamo essere”, a cui poi nei momenti di riflessione diamo un contorno più consapevolizzato.

Per questo non c’è preghiera senza vita e non c’è vita senza preghiera, perché è in questa circolarità di azione e riflessione, di pratica e di teoria, di atto e di consapevolizzazione dell’atto, che costruiamo il “chi vogliamo essere”, in un processo che – inevitabilmente – è storico, cioè si fa, facendolo… dietro a lui.
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