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mercoledì 3 agosto 2011

XIX Domenica del Tempo Ordinario: Il Signore… L’Altro di cui non avere paura

Le letture che la Chiesa ci propone per questa diciannovesima domenica del Tempo Ordinario sono davvero molto ricche: contengono infatti alcune tra le pagine più dense dell’AT e del NT.

Innanzitutto l’avventura di Elia… un profeta davvero “strano”… lontano dall’idea classica di profeta che spesso abbiamo in testa… un profeta che pretende di parlare e agire in nome di JHWH prima di arrivare a conoscere il suo vero volto… combinando perciò anche qualche pasticcio…

Sarebbe interessante andare a rileggersi la sua storia (contenuta nel I e II libro dei Re – si tratta infatti di un “profeta non scrittore”, cioè di un profeta che non ha nel canone biblico un libro che porta il suo nome), accompagnati magari da qualche buon commento (per esempio quello di G. Borgonovo), perché si tratta di una parabola umana davvero molto emblematica: Elia è colui che «arde di zelo per il Signore, Dio degli eserciti» e – animato da questo fervore – è colui che comanda, pretende, discute, uccide… Fino a quando quello stesso Signore che credeva di servire in quel modo, lo prende e lo conduce attraverso un itinerario di conversione… non morale… ma teologica… Elia infatti si comporta in quel modo perché ha in mente un’errata immagine di Dio (il Dio degli eserciti, appunto) e Dio vuole condurlo a diventare un uomo diverso, mostrandogli di essere un Dio diverso… «Il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera»… che letteralmente sarebbe “la voce di un silenzio svuotato”…

In questo doppio ossimoro (voce-silenzio-svuotato) sta il tentativo di raccontare l’esperienza del vero volto di Dio che Elia fa… Un doppio ossimoro davvero difficilmente comprensibile (molto più facile è invece intuire il volto di un dio che sta nel vento o nel terremoto o nel fuoco), ma forse è proprio a questo che Elia accede: il Signore non è un Dio “misurabile”, “contenibile”, “circoscrivibile”… è sempre Altro… lo si può intuire, incontrare, sfiorare, ma mai possedere… non ci sta dentro ai nostri schemi, ai nostri calcoli, alle nostre misure…

Scriveva a proposito D. Bonhoeffer in Resistenza e resa: «Chi è Dio? Anzitutto, non una fede generica in Dio nella sua onnipotenza ecc… Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. […] Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto “religioso” con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare – questa non è autentica trascendenza. […] Il trascendente non è il mostruoso, il caotico, il lontano, l’orribile in forma animale, come nelle religioni orientali; ma neppure le forme concettuali dell’assoluto, del metafisico, dell’infinito, ecc…».

Ecco… io credo che – nonostante queste siano cose che abbiamo probabilmente spesso già sentito, studiato, meditato, ecc… – io credo che uno dei problemi più grandi della nostra fede resti proprio quello di vederla troppo spesso orientata verso un dio che in realtà è solo “un pezzo di mondo prolungato”… non Lui come veramente è… ma come noi ce lo siamo costruito nella nostra testa…


Per esempio io è più di un anno che nutro un grande risentimento per il dio che mi ha fatto morire mio fratello. Solo che questo “dio che mi ha fatto morire mio fratello”, semplicemente non esiste, non è il Dio di Gesù e Signore della mia vita. Solo che continuamente nel mio cuore e nella mia mente, quando provo a stare un po’ in compagnia di Dio, è lui – questo idolo / falso dio – che “prende il posto” a quell’Altro…

Siccome è a questi livelli che si gioca l’incontro col Signore, possibile solo nel suo lasciarlo essere Sé (e non un altro), è fondamentale ricercare sempre quella lucidità di sguardo che ci permette di non confonderci… una lucidità non solo intellettuale, ma anzitutto esistenziale – come quella che arriva ad acquisire Elia – che dunque necessita di tempo, di bollitura, di andate e ritorni, di storia… e che ha bisogno essenzialmente dei tre ingredienti imprescindibili dell’esperienza cristiana (imprescindibili perché coincidono col modo in cui il Signore stesso si è reso accessibile): la sua Parola, il dono del suo corpo e del suo sangue, i suoi poveri.

Mi pare che anche il vangelo vada in questo senso…

Infatti immediatamente dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù attua una serie di comportamenti che attestano questo suo essere “al di là delle misure umane” e che, non per niente, suscita reazioni di incomprensione: «La folla reagisce d’istinto al miracolo gratuito e sorprendente del Signore. È “saziata”, e quindi tentata di sequestrare questo taumaturgo che risolverebbe tanti problemi (fino a pensare di farlo re, come ricorda il Vangelo di Giovanni). I discepoli non ci capiscono più niente, perché prima volevano congedare la folla, quando era affamata e senza risorse, e adesso che Gesù la vuole congedare perché è saziata, loro vorrebbero trattenerla, per godersi gli allori del miracolo…» [Giuliano]. Insomma… quando tutti si aspetterebbero un certo tipo di messianicità (regale, osannata), Gesù si discosta… congeda la folla, spedisce i discepoli… e va «in disparte, a pregare»… Altro elemento anomalo… se è Dio lui stesso, perché prega? Mi piace citare la risposta di B. Maggioni (in il racconto di Matteo): «Non è certo possibile per noi penetrare tutto il segreto di questa preghiera solitaria. Ma forse ci avviciniamo un poco se pensiamo che era profondamente consapevole di essere Figlio, e nel colloquio col Padre esprimeva questa sua consapevolezza: uno slancio di comunione col Padre, quasi – per così dire – un ritorno a casa. Ma Gesù era anche consapevole di essere uomo, e come uomo – nella solitudine – si confrontava col Padre e con la sua parola per ritrovare costantemente la nitidezza e il coraggio della propria via».

Anche nel vangelo ritroviamo dunque questo inevitabile “essere Altro” del Signore… tant’è che quando poi raggiunge i suoi che sono sulla barca «i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura»… cioè: non lo riconobbero (come avverrà poi in tutti i racconti di resurrezione)! È così “altro” rispetto ai loro preconcetti che non lo riconoscono... «Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”», che è una delle frasi più belle che il Signore pronuncia nei vangeli: Coraggio! Sono io (Io sono!)! Non abbiate paura! Come a dire che questa sua “alterità” irriducibile non deve e non può essere intesa nella logica del serpente, che pretendeva caratterizzare la misteriosità di Dio come qualcosa di inaccessibile per l’uomo perché rivolta contro di lui, maligna, malvagia… il “volta faccia di dio”… come se Dio di sé nascondesse qualcosa per prima attirare gli uomini (con la faccia del Padre) e poi soggiogarli o sterminarli (con la faccia nascosta del Patrigno). No! A questa tentazione diabolica di pensare così, Gesù mette subito un freno: «Io sono!» - dice innanzitutto… Cioè, sono sempre quello stesso Signore che già conoscete, da Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Elia… «Non abbiate paura!»… Sono solo un Padre, mai un Patrigno. Il giusto modo di starmi di fronte è quello di non avere paura!

Dopo Gesù non si può più avere paura di Dio… Averne, è un chiaro segno che non lo si sta lasciando essere, ma ci si sta relazionando con un’immagine falsa che ci siam messi noi in testa! Tant’è che tutto il prosieguo del brano è giocato proprio sulla risposta umana al proporsi così (come Colui di cui non si deve avere paura) del Signore.

«Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù».

Pietro è tutti noi… Quando permettiamo al Signore di essere se stesso (Sono io! / Se sei tu…) – e ci si staccano perciò di dosso tutte le paure (Non abbiate paura! / Comandami di venire verso di te) – siamo capaci dell’impossibile (si mise a camminare sulle acque)…

«Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare»…

Quando togliamo lo sguardo da ciò che Lui è quando lo lasciamo essere sé (vedendo il vento forte) – e perciò ci ritornano tutte le paure (s’impaurì) – ci accartocciamo (cominciando ad affondare).

«Gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”».

Ma anche questo è “previsto”, cioè contenuto nello sguardo del Signore, che – non perché non siamo sempre all’altezza – tradisce le parole appena pronunciate diventando un Dio di cui aver paura (anche quando siamo peccatori il Signore vuole essere lasciato essere colui che non fa paura!)… e infatti: «subito Gesù tese la mano e lo afferrò», subito cioè Egli si ri-rivela come il Signore che salva non il Signore che condanna o lascia morire… senza esitazione, nonostante Pietro abbia appena fatto il contrario di ciò che gli aveva detto… aveva dubitato… cioè aveva avuto paura!

«Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”». Quell’Altro di cui non avere paura!

domenica 31 luglio 2011

Oltre la rassegna(a)zione: ascoltare la Parola per vivere da liberi



Abbiamo davanti agli occhi, la fatica quotidiana per riuscire ad arrivare alla fine del mese. Conosco gente che oramai per vivere, per riuscire a mantenere il suo tenore di vita (quello cioè che il “sistema” gli impone come dignitoso per sé e “solo per sé”), si sente “obbligata” a fare tre lavori. Uno ufficiale, l’altro di frodo quando capita, il terzo in permanenza, anche al bar, come venditore occasionale di cose tanto inutili quanto credute indispensabili.

Forse oggi riusciamo a capire meglio il grido di ben 2500 anni fa, di Isaia e ribadito da Gesù e dai cristiani di ogni tempo: solo un mondo fondato su una autentica giustizia (quella del Padre) rende possibile un equo sostentamento materiale e quindi un’autentica “adorazione”.

Abbiamo creduto che per poter vivere la vita concreta di ogni giorno, le sue leggi e le sue regole, dovessimo ignorare quelle evangeliche, come se queste appartenessero a un mondo ideale (e irreale) proprio di “persone speciali”, come i religiosi o i santi e che non potevano essere vissute da “uomini umani” (Pasolini). Ci rendiamo conto oggi più che mai, che invece quando l’ideale evangelico è ignorato, diventa vano ogni tentativo di attuare ciò che è umano. A furia di ignorare il Vangelo “perché impossibile da vivere in questo mondo”, ci stiamo rendendo conto che le leggi di questo mondo (anche la semplice buona educazione!) sono impossibili da vivere senza il Vangelo.

Un’economia (con tutto quello che la compone, formule finanziarie comprese) crea veramente profitto solo quando al proprio interno sono compresi i principi fondamentali del Vangelo. Solo la gratuità della charis rende possibile il profitto! Altrimenti quello che si produce non può che essere continua perdita anche per i pochi che si illudono di arricchirsi solo perché possiedono più degli altri.

C’è un nesso inscindibile tra economia e fede e spiritualità… Tra libertà religiosa e libertà economica: senza questa non c’è quella. Mosè, Isaia, Gesù, Paolo e i primi cristiani, Francesco e Gandhi… l’avevano capito! Cosa aspettano i cristiani se non a testimoniarlo almeno a riconoscerlo?

La vera fede è solo quella capace di costruire una nuova economia dove ciascuno possa uscire da un vano agitarsi (nei vari Egitto, Babilonia… e Pomigliano… sparsi nella storia) per poter finalmente trovare l’autentico frutto del proprio lavoro: Qui non ci sono luoghi da citare… né serve che ci siano delle “città di Dio” perché è il pianeta intero ad essere chiamato a risorgere e non una sua parte!

Come?
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.  Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.

Il primo movimento è la compassione… quella di Dio che si manifesta concreta in Gesù Cristo, non quella effimera di una smemorata emozione che dura il tempo di un Tg o di una “pacca sulle spalle”.

Il secondo movimento è non aspettare di avere a sufficienza per cominciare a dare, spezzando la logica (dis)umana di un’economia individualista (vadano a comprarsi da mangiare), per condividere il niente che abbiamo. Per poter cominciare a condividere finalmente il necessario e non il superfluo. Ché, se superfluo, non serve (a) nessuno!

Il terzo movimento è uscire dalle dinamiche sacralizzanti che riducono il brano evangelico (nella quasi totalità dei commenti) a una prefigurazione e preparazione dell’istituzione dell'Eucaristia. Semmai – come il racconto dell’Ultima Cena di Giovanni intende – è il contrario: è l’Eucaristia – e quindi la Croce – ad essere prefigurazione e preparazione e costruzione di un’azione divina nella storica che cambi il modo e il mondo delle nostre relazioni economiche (notare che non ho scritto “ancheeconomiche”: perché persino l’amicizia si fonda su una dimensione esistenziale che permetta una relazione economica gratuita. Infatti le amicizie economicamente interessate non sono amicizie! Da ciò si può capire come la dimensione economica – come quella politica e religiosa – è una dimensione trascendentale che comprende tutto l’uomo e il suo agire).

Solo così “celebrare l’Eucaristia” non si riduce a una messinscena, vuota di incontri (nonostante lo sforzo di renderle solenniin un teatrale e spesso roboante quanto infecondo liturgismo), ma diventa un autentico celebrare la Vita Nuovache si è instaurata non solo nel nostro cuore ma anche nelle nostre tasche anche loro aperte come vasi comunicanti. E le nostre celebrazioni diventeranno allora il luogo dove si realizza e si manifesta al mondo intero la gioia evangelica di una solidarietà rinnovata che la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada e le vecchie e nuove ideologie xenofobe e “identitarie”, non potranno far altro che rinforzare, rinsaldare e rivitalizzare.

In questa chiave, tanto per restare ancorati alla nostra storia, non basta più, come ai tempi di Zaccheo, restituire quando si è legalmente rubato costruendo sull’ingiustizia la propria fortuna… E se si vuole anche dissolvere ogni dubbio sull’ennesima machiavellica furbizia, occorre cominciare a pensare e a costruire una economia che al suo interno abbia come profitto la capitalizzazione di ogni giustizia. Un astuto servitore del dio Mammona come GeorgeSoros se vuole fare ammenda veramente di aver usato la finanza come legale arma di distruzione di massa a proprio vantaggio, dovrebbe cominciare da qui. Questo sarebbe veramente restituire la dignità a chi è stata tolta… E ciascuno di noi, per niente estranei all’attuale catastrofe economica mondiale (con l’ingiustizia globale che ne consegue) per la parte che gli compete (più di quanto si pensi!), dovrebbe fare altrettanto. Cominciando, ad esempio, a istituire nelle nostre parrocchie una solidarietà economica che manifesti concretamente la comunione di fede tra di noi. E non passare il tempo a rompere questa comunione con giudizi sprezzanti sulla “non voglia di sacrifici” degli altri…

Se la fede nell’Eucaristia non arriva fin qui essa è mera alienante idolatria. Sì! anche l’adorazione eucaristica può essere idolatrica, perché nessuno si illuda, non basta che l’Eucaristia sia vera, per rendere vera ogni nostra sincera modalità di officiarla!

mercoledì 27 luglio 2011

XVIII Domenica del Tempo Ordinario: «Date loro voi stessi da mangiare»

«O voi tutti assetati»...

Inizia così, attraverso le parole del profeta Isaia, la liturgia della Parola di questa diciottesima domenica del Tempo Ordinario… richiamando alla coscienza una delle condizioni più umane dell’umanità… la sete… la fame... Chi infatti non sente di essere incluso in questa chiamata? Chi non ha provato la sete? Sete di acqua (paradigma di ogni altra sete), sete di senso, sete di vita, sete di cura, sete di custodia, sete di approvazione, sete di giustizia, sete di riconoscimento, sete di leggerezza, sete di affetto, sete di sorrisi, sete di star bene, sete di coccole, sete di serietà, sete di passione, sete di libertà, sete di Dio... Chi, addirittura, non ha rabbrividito di fronte alla percezione che forse proprio questa è la natura stessa dell’uomo: un essere, sempre, dovunque e comunque, assetato/affamato? E ancora, chi non ha avvertito come tutti i tentativi “in proprio” di dissetarsi e di sfamarsi siano destinati a sfumare tra le mani?

Nonostante infatti tutte le risorse che uno può mettere in campo, il mirino pare sempre come puntato male, destinato a fallire il centro della questione, il ciò che veramente sazia: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?».

La risposta della Scrittura in merito sembra essere univoca: il Dio dei vostri padri, il Dio rivelato in Gesù è Colui che sfama (non che affama!) e disseta il suo popolo. «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. […] Ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» – dice Isaia… e il vangelo conferma: «Tutti mangiarono a sazietà».

Eppure… il problema rimane… le parole di Isaia sembrano infatti far riferimento alla promessa del banchetto escatologico e il gesto di Gesù di moltiplicare i pani e i pesci pare un gesto contingente, simbolico… E infatti il mondo (e noi, che siamo il nostro mondo) continua ad avere fame e sete… Anzi a morire nella fame e nella sete…


Che dire dunque rispetto a questi testi che ci parlano, sì, di un’inequivoca paternità di Dio (Dio è il Padre che nutre i suoi figli, non il patrigno che li sfrutta o li punisce togliendo loro il cibo! E questo è fuori da ogni dubbio – evangelicamente parlando –, tanto che è impensabile attribuire alla Sua volontà o indifferenza la nostra sete inappagata), ma che ci pongono anche innanzi a un Dio che non risolve – con interventi miracolosi e definitivi – la drammatica storica della nostra condizione di assetati/affamati?

Da questo punto di vista credo sia istruttivo anzitutto il vangelo…

Esso è collocato nel capitolo 14,13 di Matteo (è la prima delle due moltiplicazioni dei pani che questo evangelista narra, l’altra è in Mt 15,32-39); cioè nel capitolo immediatamente successivo a quello che abbiamo letto nelle scorse settimane e che conteneva il cosiddetto “discorso parabolico”. Tra quello e l’episodio odierno c’è però un duplice racconto di rifiuto / persecuzione che non si può non riportare alla mente: Mt 13,53-14,12 narra infatti della scoraggiante visita di Gesù a Nazareth («Non è costui il figlio del falegname?», Mt 13,55) e soprattutto dell’uccisione di Giovanni Battista per mano di Erode, in occasione di quell’infausto banchetto di compleanno in cui Erodìade, attraverso la figlia, chiese la testa del profeta.

È con i sentimenti provocati da queste vicende che Gesù «si ritirò in un luogo deserto, in disparte»… anche lui con la gola riarsa e assetata per lo strazio della morte assurda del suo amico e cugino Giovanni… per la sfacciataggine del potere, che si sente libero di decretare la morte dell’uomo sull’uomo… per la tragicità di vedere il regno del male che sempre sembra avanzare e spravanzare…

Forse proprio per questo, cioè proprio perché il suo cuore in questo momento è così umano da essere abitato dalla fame e dalla sete di tutti quelli che soffrono (cioè di tutti, prima o poi), di fronte alle folle che vengono a rompere il suo isolamento non prova fastidio, anzi, sembra quasi che in esse si riconosca: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro»!

E la prima cosa che fa, è guarire «i loro malati»… cioè far retrocedere il regno del male e far avanzare il Regno di Dio! Quasi che – ancora abitato dall’angoscia per la morte di Giovanni – volesse affrettarsi a dire e a dirsi che è la vita che vince sempre…

Che è esattamente la convinzione di cui abbiamo più sete quando ci muore qualcuno che amiamo.

Ma la narrazione procede… Giunge la sera e la folla in cui Gesù si è riconosciuto e per la quale ha guarito molti è sprovvista di cibo. I suoi discepoli gli suggeriscono di congedarla cosicché essa possa provvedere “in proprio” alla sua fame… Ma Gesù – che sa, come tutti, che questo è impossibile – risponde: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare»!

E in questa frase avviene il cambiamento della storia…

Infatti qui diventa chiaro come «il peccato originario (strutturale) della “emersione” umana nella storia dell’universo assume un nuovo volto, il suo vero volto: l’uomo per vivere e affermarsi ha bisogno di mangiare! Se nella dinamica biologica dell’universo questo cannibalismo dei viventi non fa problema, quando emerge la coscienza/ volontà/ libertà… e quindi la percezione della irrepetibilità, irrevocabilità della persona, l’uomo va in crisi, perché dovrebbe smettere di mangiare. Sussultano le strutture antropologiche costitutive, e si rivelano come tragedie, come raccontano i miti ancestrali: il bimbo mangia la madre, il figlio uccide il padre, il fratello dissangua il fratello, l’uomo opprime la donna, la tribù più forte schiavizza la debole, la legge è la gabbia dell’uomo che deve liberarsi… Dio mangia le sue creature…: Ognuno, insomma, sta mangiando un frutto che non doveva mangiare: con reazioni inumane: schifo, vomito, anoressia, bulimia… indigestioni e carestie… granai stipati di alimentari che vanno a male e popoli affamati.

Dentro il pellegrinaggio biblico iniziato quando Dio ha ascoltato il grido di fame del suo popolo, tra tante peripezie ed equivoci, si ripete il ritornello profetico sul senso di ogni pane: dallo da mangiare alla gente! Perché, quando la realtà storica non è la competizione, ne mangeranno e ne avanzerà anche! Questo è il paradosso economico / eucaristico: distribuire è moltiplicare» [Giuliano].

Ecco perché il Dio che ci è Padre e ci nutre, non fa qualche intervento miracolistico-risolutivo per la nostra fame e per la fame del mondo… perché il vero “miracolo” che ha cambiato la storia, l’ha già fatto… quando suo Figlio ha compiuto la sua missione: «cioè convincere il mondo (far toccare con mano sulla sua pelle) l’inversione della dinamica carnale avvenuta nella “sua carne crocifissa” – prefigurata nell’ultima cena, nella quale si è dato da mangiare e bere ai discepoli. Il livello “spirituale” a cui ci comanda di passare (esodo) non è un livello non carnale: è la carne “offerta” da mangiare e distribuita – cioè misteriosamente divenuta in lui capace di oblatività (il contrario di sé). E così realizza in modo impensato l’antico anelito profetico: del “senso” del pane: datelo da mangiare alla gente! Questo adesso è il senso del corpo umano…» [Giuliano].

Da allora «la dialettica di fondo dell’umanità non è più economica (come produrre beni per sfamare tutti?) politica (a quale “re” fare gestire la convivenza di affamati?…) affettiva (quale prodotto sazia la fame di amore?…) filosofica (quale l’origine e il senso di questa fame insaziabile, nel cuore dell’universo?)… ma evangelica.

Ecco! – la salvezza è entrata in “questo” mondo: il rapporto dialettico tra vita e morte, costitutivo dell’universo, ai suoi vari livelli di esistenza – tragico nell’uomo cosciente – diventa la dialettica tra morte (peccato) ed eucaristia, intesi come salvezza propria o altrui, salvare la propria vita o perderla, mangiare l’altro o offrirsi da mangiare… per rinnovare e continuare in sua memoria la salvezza nostra e del mondo! Trasformare il sanguinario rapporto con il dio sacrificale… in un convito fraterno ove offrirsi a vicenda…» [Giuliano].

È a questo livello che il Signore ha cambiato la storia… Con buona pace di chi dice che era meglio un miracolone definitivo… che però – appunto – se era definitivo, doveva eliminare la storia… dunque la nostra libertà… dunque noi… Il Dio di Gesù, invece, essendo amore, è Colui che mai si impone, mai fa un passo, senza il consenso altrui, mai “per un bene superiore” (la famosa “ragion di stato” di Caifa) sacrifica qualcuno o qualcosa di qualcuno… Altrimenti non sarebbe più se stesso, cioè non sarebbe più amore, ma qualcos’altro… Perché Lui sì che ha preso sul serio la logica evangelica del mai mangiare l’altro e sempre offrirsi da mangiare ed è su questo che continuamente si propone a noi.

E allora concludo con questa preghiera:

Sarebbe forse più facile accettare, o Signore, un’opera definita, dai contorni precisi; sarebbe più facile marciare inquadrati e con precise consegne; sarebbe più facile, Dio mio, obbedire specialmente a coloro che hanno già pensato e pesato tutto in vece nostra. Ma non è questo che tu o Signore vuoi da noi. Oggi, tu o Signore, vuoi che ci immischiamo con tutte le folle. Vuoi che ci immergiamo nel mondo che va lontano dal retto cammino e dopo d’aver constatato noi stessi l’immensa angoscia dei tuoi figli sperduti, possiamo allargare i nostri cuori in proporzione alla loro miseria. O Dio fatto uomo, fa che i nostri cuori siano abbastanza umani affinché i nostri fratelli vi si trovino a loro agio quando vi sono accolti.



[mons. Benson]

giovedì 21 luglio 2011

XVII Domenica del Tempo Ordinario. E se il Signore mi chiedesse: “Chiedimi ciò che vuoi?”

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa diciassettesima domenica del Tempo Ordinario – tratto anch’esso, come quelli delle due domeniche precedenti dal discorso parabolico di Matteo (cap.13) – inizia con la narrazione di due similitudini sul Regno: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».

Sono immagini che, per la loro immediatezza, non necessitano di una spiegazione. Fanno parte di quel tipo di parabole brevi ed istantaneamente comprensibili che Gesù dispensava alle folle, dunque ai semplici, senza necessità di far grandi giri di parole.

Nonostante questo, esse, però, veicolano comunque degli interrogativi che chi le ascolta/legge non può non porsi: Nella mia vita ho incontrato il Regno dei cieli di cui parla Gesù? C’è stato qualcosa nella mia storia che ha avuto questa conformazione? Che cosa è stato come un tesoro, come una perla preziosa? Per che cosa sono o sono stato disposto a vendere tutto?


Certo le cose non sono immediatamente sovrapponibili… Non sempre ciò che ci è sembrato un tesoro (e per il quale magari abbiamo anche venduto tutto) si è poi rivelato tale! Spesso noi prendiamo e abbiamo preso degli abbagli… Ci siamo entusiasmati e spesi per ciò che forse non si è rivelato così promettente come sembrava all’inizio…

Ma – nonostante questo – io credo che ciascuno, anche solo perché l’ha sforato, sappia cogliere la differenza tra “la gioia di aver trovato” di cui parla il vangelo e qualche altra ambigua fascinazione.

In proposito, mi pare che le letture che accompagnano il vangelo di questa domenica, siano particolarmente istruttive per comprendere meglio il “cosa c’è in gioco” nelle parole di Gesù.

In particolare due frasi, che – a mio parere – hanno un rimando potentissimo.

Innanzitutto i vv. 11-12a di 1Re 3: «Poiché hai domandato questa cosa [un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male] e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole».

In questo testo – che lasciamo agli esegeti stabilire se storico o leggendario – il re Salomone si trova di fronte al Signore che gli fa la domanda che – probabilmente – tutti vorrebbero sentirsi porre da Dio: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».

Al di là delle eco puerili del genio di Aladino e dei suoi tre desideri che ci tornano alla mente, la situazione è di quelle che davvero danno da pensare… Che cosa chiedere a Dio per sé?

Spesso noi anneghiamo le nostre preghiere in un elenco (anche serio, ma) molto contingente di richieste e bisogni (che non vanno disdegnati, perché sono l’anelito – in quel momento – del nostro cuore); ma se si trattasse di fermarsi un attimo e chiedere qualcosa al Signore per sé, su come si è fatti, sulle nostre ferite, sulle nostre speranze… Cosa chiederemmo? Cioè dov’è il nostro tesoro («Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore», Mt 6,21)?

Interessante che il Signore ponga la domanda in termini personali: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda», cioè “conceda a te”, sbaragliando il campo da tutte quelle risposte moralistiche (fintamente pan-agapiche) – che a Salomone non sono nemmeno venute in mente, ma a noi sì – sulla pace universale e la fame nel mondo ecc ecc ecc… Di cui – come si vede bene dalla scelte economiche di tutti i giorni – non interessa niente a nessuno (cioè non interessa a sufficienza da far cambiare la struttura economica del primo mondo), ma di cui ci ricordiamo sempre quando dobbiamo fare i grandi proclami sui nostri desideri profondi…

Sbaragliato il campo da tutto questo (cioè da una risposta che è una non risposta perché non è vera e contemporaneamente fornisce una facile scappatoia per non pensare veramente a cosa vorrei “per me”), il problema rimane: “per me” che cosa chiederei al Signore?

E Salomone – che prende molto sul serio la domanda di Dio – risponde: «un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male»! Tra tutto quello che poteva chiedere, chiede “un cuore docile”.

Ecco, questo è uno che ha proprio capito! Anche se ha vissuto circa 1000 anni prima di Gesù, ha capito cos’Egli avrebbe inteso dire con “perla” e “tesoro”…

Ha capito cioè che in gioco, quando si ha a che fare con Dio e con le cose serie della vita, ci sono io… c’è la costruzione di sé, della propria interiorità e personalità (prima ancora che di progetti o idealità) … c’è il chi voglio essere e chi voglio diventare come uomo, come donna… il come vorrei essere ricordato… la consistenza interiore con la quale vorrei arrivare al momento di salutare questo mondo…

Ecco perché incontrarsi con Dio, con le cose importanti della vita, col suo Regno, magari anche inconsapevolmente, è come trovare un tesoro, come trovare una perla. Perché lì dentro c’è la possibilità di una costruzione di se stessi che ha una pienezza inaudita: scegliere di essere figli (dunque di accogliere un Padre nelle cui braccia tornare sempre a mettersi) e di essere fratelli.

Ecco perché Paolo può dire – ed è la seconda frase cui facevo cenno prima –: «Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio». Perché se uno ha capito che la questione si gioca tutta sulla scelta di chi essere (in ciascuna situazione), sulla scelta di essere sempre figlio e fratello, allora nulla di ciò che può accadere esce (sta fuori) dall’orizzonte di senso del vivibile (bene), anche le ferite più grosse. Come ci hanno insegnato tanti eroi della Shoah: incatenati e uccisi, nei campi, c’erano uomini liberi! Cioè capaci di libertà! Capaci di scegliere, nella situazione di prigionia, oppressione e disumanizzazione, di essere uomini e non vittime.

Io credo che alla fine è di questo che si tratta… in tutta la vita… scegliere chi essere… perché è quello che di noi rimarrà…

Non a caso, il discorso parabolico di Matteo, si conclude con la parabola della rete: «il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi». Dove, innanzitutto, onde evitare fraintendimenti, c’è una precisazione da fare: la scelta tra “buoni” e “cattivi” è un problema “della fine del mondo”. La cernita viene fatta dopo la pesca, non durante… Anzi – durante – il Regno dei cieli è simile ad una rete che tira su tutti!

In secondo luogo, va notato come la finale («i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi»), che non gode della nostra simpatia, perché istintivamente richiama in noi l’immagine di un Dio giudice, calcolatore insensibile che ci fa paura (che è esattamente l’immagine di dio che il serpente da sempre tenta di instillare nel cuore dell’uomo e che Gesù da sempre tenta di distruggere!), in realtà ha la valenza tipica della “minaccia pedagogica”, come la mamma che dice “guarda che se non fai i compiti, non ti voglio più bene!”; dove l’accento non è sulla minaccia (fasulla), ma sulla preservazione della cosa importante e bella che si deve custodire (“fare i compiti!” o “essere pesci buoni”, dove appunto, l’essere “buoni” coincide esattamente con ciò che tentavamo di delineare in precedenza… “costruirsi dentro come figli… come fratelli”!).

Il problema storicamente è stato che nella cultura è stata veicolata maggiormente la minaccia (“Guarda che se fai così o non fai così vai all’inferno!”) – che aveva solo uno scopo pedagogico – che il nucleo incandescente da custodire (la buona notizia di Gesù) e così spesso ne son venuti fuori cristiani impauriti, che sceglievano non per adesione a qualcosa che riconoscevano come bello (un tesoro, una perla!), ma per evitare una punizione minacciata (l’inferno!)… cristiani moralistici e non evangelici! Che in più si sono messi a far la morale anche agli altri, dividendo già nell’aldiqua i pesci buoni dai pesci cattivi secondo i loro criteri!

L’invito di Gesù invece – attraverso il genere letterario della minaccia che sottolinea qualcosa di importante – è quello di rendersi conto che “durante la pesca”, cioè in questa vita qua che c’è donata, in gioco c’è qualcosa di radicale, di assoluto… in gioco ci siamo noi… nella nostra vita è di noi che ne va! L’essere “buono” o “cattivo” dunque non ha un senso morale, ma esistenziale e sempre recuperabile! Perché in ogni istante a ciascuno è chiesto di scegliere chi essere!

Mi pare dunque che queste tre parabolette, che ad una prima lettura sembravo qualcosa di fin troppo semplice per prestargli una grande attenzione, in realtà vadano a cogliere il problema più serio della nostra esistenza. E per questo meritano davvero di essere lasciate sedimentare in noi, perché arrivino a scardinarci negli anfratti più duri del nostro moralismo e ci facciano star lì un po’ seduti a pensare a chi siamo e a chi vogliamo essere…

sabato 16 luglio 2011

XVI domenica del Tempo Ordinario: La parabola della zizzania

I testi che la liturgia ci propone per questa sedicesima domenica del tempo ordinario sono ricchissimi, sia dal punto di vista della mole che del contenuto. Proprio per questo, a partire da essi, si potrebbero sviluppare innumerevoli tematiche, col rischio però, nel commento, di disperdersi.


Per evitare tale pericolo, focalizziamo l’attenzione in modo specifico sulla cosiddetta “parabola della zizzania” (Mt 13,24-30), stando bene attenti però a non scivolare immediatamente dalla parabola vera e propria alla sua spiegazione (Mt 13,36-43), che forse, per deformazione (cattolica), ci è più nota. Quest’ultima infatti ha tutt’altri intenti e tutt’altre finalità rispetto alla parabola e punta interamente l’interesse sulla tematica della fine del mondo; tematica che invece nella parabola occupa solo lo spazio di mezzo versetto (il 30b «al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio») e che dunque non ne costituisce di certo il centro.

Precisato l’intento di concentrarsi soprattutto sulla parabola della zizzania, va chiarita in primo luogo la sua collocazione; essa infatti non è casuale, ma davvero significativa per la comprensione: siamo al capitolo 13 del Vangelo di Matteo, ai versetti 24-30, e cioè immediatamente dopo la spiegazione della parabola di domenica scorsa: quella del seminatore. Ciò che risulta così interessante è il fatto che mentre quella terminava con il riferimento al terreno buono («Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta», Mt 13,23), questa inizia con la menzione del seme buono («Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo», Mt 13,24). Questo richiamarsi così evidente delle due parabole ha una motivazione ben precisa: il fatto cioè che la problematica della seconda è in qualche modo lo sviluppo dell’esito della prima. Mentre in quella infatti si concludeva sottolineando la responsabilità dell’uomo (dei terreni) per la fecondità del seme, in questa nasce una domanda nuova: Perché da un seme buono e da un terreno buono, da cui dobbiamo aspettarci ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta, non viene solo un frutto buono, ma anche dell’altro?

Perché cioè, sembra domandare la parabola, neanche quando la Parola di Dio (il buon seme) si incontra in modo fecondo con l’uomo (il buon terreno), il problema dell’ambiguità della storia è risolto? Perché anche nel fruttuoso incontro dell’uomo con Dio rimangono zone d’ombra, interstizi imputriditi, spazi di aridità?

Ma non solo! La parabola infatti sembra suscitare anche tutta un’ulteriore serie di interrogativi: Come va identificata la zizzania? Da dove viene? Chi è quello che Gesù chiama “un nemico”? E soprattutto: Che cosa bisogna fare?

Andiamo con ordine...

Innanzitutto va evitata quella lettura (ereticheggiante) secondo la quale grano e zizzania rappresenterebbero la divisione fra buoni e cattivi. La questione infatti è più radicale: la zizzania non sono i malvagi, ma il male in senso forte, quello che non può essere trasformato in bene, ma che resta male radicale. Ecco dunque il problema vero: perché c’è il male, nonostante il seme buono e il terreno buono?

La parabola espone questo problema ponendo in bocca ai servi due domande: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». La prima questione cade nel vuoto. Il padrone infatti alla prima domanda, che metteva in discussione la bontà del seme (che cioè poneva la possibilità dell’origine del male in Dio stesso), non risponde: è già stato detto che il seme era buono. La seconda questione riceve invece una risposta: «Un nemico ha fatto questo!»; ma è una risposta che non soddisfa; non scioglie la gravità del problema e anzi suscita ancora maggiori interrogativi: Chi è questo nemico? È un nemico che si può sconfiggere? Cosa bisogna fare?

Ma la parabola di tutte queste problematiche sembra disinteressarsi. Essa non dà risposta. Il suo interesse è altrove, nella nuova domanda dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?».

È a partire da qui infatti che si snoda il proseguimento della parabola, facendo di questa domanda il centro di interesse vero di chi racconta e di chi ascolta: il problema è infatti che cosa fare di fronte al male che c’è; di fronte al male che c’è nonostante terra buona e seme buono si incontrino.

La soluzione proposta dai servi – «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» – la soluzione cioè dell’eliminazione, è ancora nella prospettiva di chi divide il mondo in buoni o cattivi, in giusti e ingiusti, in puri e impuri, con l’implicita premessa di sapere distintamente chi sono i bravi (noi) e chi i cattivi (gli altri) e con la apparentemente ovvia e necessaria conseguenza dell’estirpazione... è la stessa logica dei discepoli quando, di fronte alla non accoglienza di Gesù da parte di un villaggio di Samaria, avevano esclamato: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54).

È la modalità che immediatamente verrebbe naturale anche a noi. Ed in effetti non manca di una sua coerenza interna: togliere la zizzania infatti appare inevitabile per la crescita del grano; essa rischia di soffocarlo, di rubargli nutrimento, luce, aria e dunque vita! Non è una proposta assurda dunque quella dei servi: per la vita del grano, perché possa crescere più vigoroso, solido, robusto, è meglio che gli sia strappata intorno l’erbaccia che lo opprime... anche a rischio di strappare un po’ di grano – ci verrebbe da dire...

Eppure... questo discorso che a noi pare così lineare riceve nella parabola un duro rifiuto: «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme». Per il padrone di casa è meglio che zizzania e grano crescano insieme! Conosce di certo le nostre obiezioni: il rischio che il grano soffochi, che faccia più fatica a crescere e a svilupparsi... Eppure preferisce correre questo rischio che percorrere la strada dell’estirpazione. In essa infatti il pericolo è ancora più realistico: «che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano».

È dunque la salvaguardia del grano il principio che guida la scelta del padrone!

Alla logica dei servi – così simile a quella di Caifa per cui «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14) – che una parte di grano sia strappata per la buona crescita del restante, Gesù contrappone quella della salvaguardia della singolarità preziosa di ciascuno. Il Dio di Gesù è fatto così: non ragiona secondi i calcoli economici del massimo profitto (per cui val la pena a volte anche sacrificare qualcosa/qualcuno per una rendita maggiore – come di fatto funziona il nostro mondo), ma secondo quelli della massima cura di ogni singolo uomo: «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti» (Sap 12,13.16).

Ma resta ancora qualcosa da dire... infatti, fatta salva la cura della singolarità di ognuno, resta il problema di questo “rimanere” della zizzania... Se essa rappresenta il male (il male che c’è in ciascuno di noi e nel mondo in generale) perché non va estirpato? La nostra singolarità non sarebbe ancora più custodita se il male fosse eliminato? Gesù non era venuto proprio per liberarci da esso? Sicuramente sì... E di fatti “tenere” la zizzania non vuol dire accettare un compromesso col male, un rassegnarsi inoperoso alla sua presenza (in noi e nel mondo), ma è un prendere coscienza serio della realtà: la zizzania che rimane nel campo è come una fotografia della storia, un invito a uno sguardo lucido su di essa che porti alla consapevolezza dell’ambiguità dei percorsi umani che accompagna tutta l’esistenza e che va assunta.

E l’ambiguità è questa: che come non si può dividere l’umanità in buoni e cattivi, allo stesso modo non si può neanche col bisturi separare nel nostro cuore il limpido dal torbido, il chiaro dall’ombroso... e non perché l’uno non possa esserci senza l’altro (quasi che il male fosse necessario al bene), ma perché ogni bene è bene storico, si dà cioè in una storia, che ha un prima e un dopo, una germinazione silente e un futuro incerto, che impedisce qualsiasi assolutizzazione o fissazione, foss’anche del momento più bello della vita. Per usare un’immagine: non possiamo pensare la nostra vita personale e la vita del mondo in generale come una linea retta in cui, in una progressione continua, man mano estirpiamo questo male, questo difetto, questo limite... per arrivare ad “essere apposto”. Ad ogni istante infatti si ripropone per l’uomo la questione fondamentale della sua esistenza: l’inevitabile domanda su chi egli sia e dunque l’inevitabile scelta su chi egli voglia essere. E seppure è vero che tale questione, nel procedere della vita, è posta in modo diverso, con soglie che come regali a volte si schiudono, e che dunque – come dice Paolo – man mano, «colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito», all’uomo rimane sempre comunque l’inesauribile problema di se stesso, di farsi e costruirsi, di scegliere se esser-ci o auto-distruggersi, di vivere o di morire...

Ecco cos’è dunque il campo di grano con la zizzania: la fotografia della realtà, di come siamo fatti, della storicità della costruzione della vita! Perché nessuna assolutizzazione (nel male e nel bene) interrompa il farsi dell’uomo...

E per concludere... e forse, per chiarire... un piccolo stralcio del libro L’ultimo giro di giostra di T.Terzani, il quale nelle pagine finali, dopo aver raccontato della scoperta di avere un cancro e di tutto il viaggio interiore che questo l’ha portato a fare, commenta:

«Un lieto fine per questo?

E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del viaggio che ho appena raccontato? “... e visse felice e contento”? Ma così finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E quando?

A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.

Questa non è un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista».

giovedì 7 luglio 2011

XV Domenica del Tempo Ordinario: La parabola dà da pensare

In questa quindicesima domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa, sopratutto nella prima lettura e nel vangelo, ci propone il tema della Parola di Dio, una delle vie di accesso imprescindibili alla relazione col Signore.
Lo fa, appunto, con il bellissimo testo di Isaia 55 e poi sopratutto nel brano evangelico, il quale è tratto dal capitolo 13 di Matteo, cioè esattamente dal punto di inizio del cosiddetto “Discorso in parabole”.

Questo tredicesimo capitolo segue il dodicesimo (che la liturgia domenicale non ci propone), che è un capitolo molto duro, tutto incentrato sulle contestazioni cui Gesù pian piano è sottoposto, e che si chiude con le forti parole di Gesù «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre». È a questo punto che l’evangelista riferisce: «Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse»...

Inizia così il racconto della famosissima parabola del seme, riportata da tutti i sinottici (cfr. Mc 4,3ss e Lc 8,5ss).

Essa è sempre proposta accostata alla sua spiegazione e questi due momenti del discorso di Gesù sono inframmezzati da un piccolo, ma intensissimo, dialogo coi suoi discepoli.

Dato che – però – spesso nei percorsi automatici del nostro pensiero si sono fissati per lo più i dati della spiegazione della parabola (per esempio le associazioni tra i vari tipi di terreno e i possibili gruppi di ascoltatori della Parola), piuttosto che quelli della parabola stessa, mi pare utile procedere con ordine.


Iniziamo perciò dai versetti 3-9: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Innanzitutto il genere letterario: siamo di fronte ad una parabola, perciò a quel particolare tipo di testo che gli esperti chiamano “racconto fittizio”, cioè un racconto realistico, che parte da elementi molto noti per gli uditori (nel nostro caso l’attività agricola), e che però non narra un fatto realmente accaduto, ma una storia, appunto. Come ogni parabola, anche la nostra, contiene poi in sé un elemento particolare (o perché stravagante o perché inusuale, esagerato, extra-ordinario) che scatena nell’uditore – che fino a quel momento aveva semplicemente ascoltato una storiella “normale”, senza tensioni letterarie – uno shock, che lo costringe a pensare.

La parabola funziona infatti sempre in questo modo: pare un racconto semplice, per semplici, ma ad un certo punto subisce una “variazione sul tema”, tale da provocare intorno a sé agitazione e riflessione.

Nel nostro caso questi momenti sembrano essere due: uno che tutti noi lettori moderni percepiamo all’istante, ma che in realtà forse per gli ascoltatori di Gesù era meno shockante, e che consiste nello “spreco” di semente che il seminatore attua; e l’altro – che noi percepiamo meno, ma che in realtà forse era il vero elemento scaravoltante per gli uditori di allora – che consiste nella sovrabbondanza del frutto portato dal terreno buono.

L’elemento che noi percepiamo come particolarmente anomalo, quello della sovrabbondanza del seme, allora era forse meno sentito come elemento inconsueto del racconto di Gesù, perché pare fosse abitudine degli agricoltori palestinesi di allora utilizzare questa metodologia di semina. Noi occidentali contemporanei con la nostra mentalità economico-efficientista, troviamo invece questo aspetto per lo meno strano, ed è per questo che da subito la parabola ci “dà da pensare”.

Al di là delle abitudini agricole dei contadini del tempo di Gesù, è da ammettere comunque che una certa esagerazione/sbadataggine di questo seminatore, nella parabola, non è casuale. In qualche modo questa sua sovrabbondanza allude alla sovrabbondanza con cui il Signore dispensa la sua Parola e – con essa – il suo amore.

Ecco dunque un primo elemento: la storiella apparentemente banale del seminatore, con questo stratagemma comunicativo dello “shock che dà da pensare” ha già fatto fare all’uditore un salto… Qui non si parla semplicemente di un seminatore e del suo seme, ma si sta rivelando qualcosa di chi è Dio. È la cosiddetta “funzione rivelativa” della parabola che, se è vero che spesso contiene anche un suggerimento morale o un’indicazione per la sequela, in realtà ha soprattutto lo scopo di dire qualcosa su chi è Dio. E qui ci dice appunto che il Signore non è un Dio tirchio, che sceglie con cura il destinatario della sua Parola tra coloro dai quali ha una buona probabilità di ottenere ascolto, ma è un Dio che dona con abbondanza, anzi con sovrabbondanza, un Dio che non teme lo spreco e l’esagerazione quando si tratta di dare, anzi di darsi, e che ha questo atteggiamento verso tutti, indipendentemente dalle credenziali altrui.

C’è poi – dicevamo – il secondo elemento, quello forse maggiormente percepito dai contemporanei di Gesù e che invece a noi – lontani ormai dall’esperienza rurale – cogliamo con minor immediatezza: il terreno buono non solo porta frutto, ma lo fa in una maniera impensabile, addirittura irrealistica, che forse ha fatto sogghignare con sarcasmo qualche contadino che era lì ad ascoltare Gesù: «il cento, il sessanta, il trenta per uno».

Anche questo elemento dà “dare da pensare” e – anche senza che egli se ne accorga – suscita nell’ascoltatore una serie di domande irriflesse: Che seme è questo che dà un frutto così abbondante? E di quale terreno sta parlando? Chi è questo seminatore? Com’è possibile un raccolto così sproporzionato? Ecc…

Per comprendere meglio il senso di questo IV quadro così positivo è forse utile notare come esso venga dopo 3 quadri assolutamente fallimentari: 1) «Una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono»; 2) «Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò»; 3) «Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono».

È dunque il contrasto “3 quadri bui / 1 quadro luminosissimo” che ci deve indirizzare nella giusta comprensione della parabola: essa – a fronte della predicazione apparentemente infruttuosa di Gesù e poi della prima Chiesa (chi scrive il vangelo è infatti convinto che Gesù sia il Messia e dunque fa fatica ad accettare che Egli sia stato rifiutato – soprattutto all’interno del suo popolo – e che la sua Parola non convinca immediatamente tutti) – è probabilmente scritta per coloro che erano tentati di sfiducia… A loro la parabola risponde dicendo che se anche la Parola incontra tanti ostacoli, tanti terreni non buoni, tante resistenze, comunque essa arriva anche al terreno buono e lì dà un frutto inimmaginabile per la sua sovrabbondanza: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»!

Ma – come dicevamo in precedenza – il testo evangelico di questa domenica non termina qui. Continua infatti con un piccolo dialogo che intercorre tra Gesù e i suoi discepoli sul motivo per cui Egli parla in parabole.

Contrariamente a quanto – forse – siamo abituati a pensare, Gesù non risponde dicendo “Parlo in parabole, così – attraverso queste storielle – tutti, anche i più semplici, possono capirmi”, ma anzi, afferma proprio il contrario: “Perché a loro non è dato comprendere!”, e non sta parlando di avversari o cattivoni… ma delle folle… Le stesse a cui – abbiamo sentito settimana scorsa – aveva detto «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»…

Forse allora, non solo il contenuto delle parabole deve dare da pensare… ma anche il genere letterario parabola in se stesso dà da pensare… Esso infatti incarna una strategia (un vero e proprio marchingegno) che funziona così: «Gesù stesso dice che ci sono delle parabole che racconta precisamente perché non capiscano, che vuol dire, appunto, che in realtà sono parabole che mirano a tenere in sospeso la comprensione. E quando si mira a tenere in sospeso la comprensione? Per esempio quando si ha il fondato timore che una spiegazione più diretta produca già l’automatismo di una comprensione che coincide con il fraintendimento, col prevalere del luogo comune. Quando io cioè, discorrendo di un argomento delicato, temo che, se adopero parole troppo dirette, esempi troppo elementari, quell’altro dica: “Ah, ecco è l’idea della grazia che…” ed invece sto cercando di aprire un varco nel luogo comune, per farlo evolvere, istintivamente adotto un congegno, un apparato di comunicazione che riesca a frenare quell’approdo immediato (della serie: “So, perché ho anch’io uno zio monsignore”), che l’altro debba pensare un attimo, forse pensandoci su si apre un varco perché possa scoprire dell’altro, perché gli venga in mente che, forse, quello che ha in mente, era uno schema un po’ semplificato, e gli mancavano dei pezzi; che forse l’argomento che voglio proporgli contiene qualcosa di più di quello che lui sa già e, spesso quando so che il luogo comune è pronto a scattare in un attimo, questo freno, questa inibizione della comprensione è destinata a creare un varco per un ripensamento» [Sequeri].

Le parole di Gesù ai discepoli dunque non denotano una sorta di selezione tra quelli a cui Dio vuole farsi conoscere e quelli per i quali invece vuole restare velato (non ri-velato, appunto) – prova ne è che poi questa parabola e la sua spiegazione “privata”, riservata cioè solo ai discepoli, è entrata nel testo evangelico, dove tutti possono leggerla! – ma mostra come quando si ha a che fare con Gesù, sia necessario rompere con il luogo comune, soprattutto con quello religioso. E il genere letterario parabolico serve esattamente a questo!
Una parola, infine, sulla spiegazione della parabola, caratterizzata dall’associazione di ciascun terreno con un determinato atteggiamento umano: dato che abbiamo già scritto fin troppo, solo una provocazione finale… È vero che a ciascun tipo di terreno è associato un tipo di persona, ma forse quei tipi di persona non coincidono con persone singole, ma con diversi modi di essere che ciascuno di noi ha in sé… Siamo noi dunque (e non altri) la strada, il terreno sassoso, quello pieno di spine… ma anche, a volte, quello buono... La questione diventa allora, come pian piano “lavorare” il terreno che noi siamo, perché in esso possa trovare casa il seme della Parola e portare frutto, lasciandoci da lei sempre più conformare, al di là dei luoghi comuni su Dio?

giovedì 30 giugno 2011

XIV Domenica del Tempo Ordinario: Tre “carezze accelerate”

Dopo le grandi solennità che ci hanno accompagnato in questo ultimo periodo post-pasquale, ricomincia – anche per le domeniche – il Tempo Ordinario, che ci accompagnerà fino all’inizio del prossimo Avvento.


Secondo il calendario liturgico, domenica entriamo, infatti, nella XIV settimana del Tempo Ordinario e la liturgia ci fa “ripartire” con questa ferialità del tempo dal capitolo 11 del vangelo di Matteo.

Se consideriamo che l’ultima domenica del Tempo Ordinario – prima dell’interruzione quaresimale e poi pasquale – era la IX e il vangelo era tratto dal capitolo 7 di Matteo, ci accorgiamo subito che c’è un salto di circa 3 capitoli e mezzo…

È utile allora, prima di affrontare il brano odierno, rifare un po’ il punto della situazione: i primi due capitoli del vangelo di Matteo ci avevano raccontato l’infanzia di Gesù (dal punto di vista del suo padre legale, Giuseppe), i capitoli 3 e 4 avevano presentato l’inizio della sua missione (il trittico sinottico – ossia la predicazione e il battesimo di Giovanni Battista, il battesimo di Gesù, le tentazioni nel deserto; il ritorno in Galilea; la chiamata dei primi quattro discepoli; gli insegnamenti e i gesti di liberazione dal male di Gesù), i capitoli dal 5 al 7 contenevano, poi, il cosiddetto “discorso della montagna” (col la proclamazione delle beatitudini e della giustizia nuova che Gesù – con autorità – propone agli uomini – suggellata dall’invito all’amore per i nemici)… e i capitoli 8-9-10?

Essi costituiscono quella parte del vangelo di Matteo che usualmente viene chiamata “La predicazione del Regno dei cieli” e che si compone di una sezione narrativa in cui vengono raccontati dieci miracoli, le parole di Gesù sulle esigenze della sequela, la chiamata di Matteo, un pasto di Gesù con i peccatori e la conseguente discussione sul digiuno e infine il cosiddetto “discorso missionario”.

Prima di giungere al nostro brano (Mt 11,25-30), ci sono poi i primi 24 versetti del capitolo 11…

Rubando le parole a Giuliano, potremmo dunque dir così: «si va manifestando sempre più l’identità vera di Gesù e quindi della sua missione tra di noi e la nostra difficoltà a capirla. Abbiamo visto Gesù che va a pranzo con i peccatori e i pubblicani …e i farisei si scandalizzano. Gesù si commuove di compassione per le folle perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore, e vuole che i suoi discepoli le consolino e le curino … In questo capitolo 11°, si intensificano incomprensioni e resistenze verso di lui: Giovanni Battista non ne coglie la novità, il popolo non lo comprende, i farisei lo dichiarano indemoniato, e i villaggi sul lago, dove più si è speso come amico, profeta, taumaturgo, sono refrattari al suo messaggio. Gesù ne rimane molto deluso…: ha nelle orecchie i commenti su di lui degli esperti delle Scritture: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori… e soffre per l’inutilità della sua predicazione: “si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite…” É arrivato al fondo di un vicolo cieco e proprio qui, si apre uno squarcio inaspettato di gioia… si spalancano orizzonti nuovi luminosi, entro i quali addirittura brilla il volto del Padre e in lui Gesù sussulta di riconoscenza ed esulta nello Spirito Santo (Lc 10 21), perché ritrova il senso della sua avventura in questo mondo».

Improvvisamente infatti prorompe nella preghiera che coincide con il testo evangelico di questa domenica: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.

Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero»!

È un testo bellissimo… che contiene tre fondamentali affermazioni (identificabili anche graficamente).

1- La prima… quella che ci fa più problema… o almeno quella che mi fa più problema… perché mi accorgo che spesso il tentativo è quello di presentarsi e di pensarsi – appunto – come sapienti e dotti agli occhi del mondo, agli occhi degli altri, agli occhi propri… con un atteggiamento non lontano nella dinamica da quello del fariseo della parabola di Lc 18,10-14 («O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano»), dove appunto in gioco c’è «l’intima presunzione di essere giusti» o migliori degli altri – che dunque “si possono disprezzare” («Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», Lc 18,9)… E ogni volta – per fortuna! – la prima frase del vangelo odierno arriva come uno schiaffo a tirarmi fuori dai desideri di grandezza (soprattutto moral religiosi – o come li si vuol chiamare – che sono i peggiori, perché ben confezionati da quella che santa Teresa chiamava “falsa umiltà”!) e mi impone di domandarmi: “Perché questa frase ti fa venir male alla pancia, se è così bella, se custodisce i piccoli, ecc…?”. Forse perché – appunto – a tutti piace prendersi cura dei piccoli (da grandi che siamo), ma a nessuno piace essere considerati tali… Infatti mi chiedevo già tre anni fa – e non è un bel segno che me lo stia chiedendo ancora dopo tre anni… – quanto sarebbe diverso se, leggendo questo testo, io fossi – davvero – piccola tra i piccoli… Non mi verrebbe il mal di pancia… anzi mi si allargherebbe il sorriso… E invece mi viene il mal di pancia… che vuol dire che ce n’è davvero ancora tanta di strada da fare per convertire le viscere e ficcarsi una buona volta in questa testona che tutti esistenzialmente siam dei piccoli… e voler fare i grandi può servire per un po’ ad acquietarci le paure, ma in fin dei conti, fa solo ridere i polli…

2- La seconda non fa venire il mal di pancia, ma fa saltar le coronarie… perché è potente! «Tutto è stato dato a me dal Padre mio» dice Gesù… Cioè vuol dire che Dio – che noi ci immaginiamo sempre come così misterioso e lontano – in realtà per l’uomo non ha segreti. Egli infatti, conosciuto da sempre in tutto e per tutto dal Figlio suo, gli ha dato il potere di “dircelo anche a noi” chi è Dio… e Lui l’ha fatto! Tant’è che san Giovanni della Croce ha potuto scrivere: «Perciò chi volesse interrogare il Signore e chiedergli qualche visione o rivelazione non solo commetterebbe una sciocchezza, ma arrecherebbe un’offesa a Dio, non fissando i suoi occhi interamente in Cristo per andare in cerca di altra cosa o novità. Invece il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: “Se io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non altro ho da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale io ti ho detto e ho rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri» [S. GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del Monte Carmelo, cap. 22,6, in ID., Opere, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1979, 175].

Ma, nonostante fosse un’evidenza per la prima comunità cristiana, nonostante le parole di Giovanni della Croce di 500 anni fa, nonostante la Dei Verbum del Vaticano II (di cui – fra i vari numeri citabili – ci limitiamo al «4. Dopo avere Iddio, a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, “alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” – Eb 1,1-2. Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio – cfr. Gv 1,1-18. Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” – Gv 3,34 – e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre –cfr. Gv 5,36; 17,4. Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre – cfr. Gv 14,9 –, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo – cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13»)… nonostante tutto questo la potenza dell’affermazione che la storia di Gesù è il volto di Dio, non è ancora riuscita a conformare le nostre esistenze…

E questa è la seconda sberla che questo vangelo ci/mi dà… Siamo troppo dis-persi (anche solo religiosamente parlando) in ciò che non è Lui…

3- Eppure era stato proprio Lui (come testimonia la terza affermazione del vangelo di domenica) a dirci cosa fare nella dispersione: «Venite a me!»…

L’invito che mi faccio e vi faccio – dunque – dopo le due “sberle” di prima, è quello di prendere la “terza”… un bello sberlone (che qualcuno definiva “una carezza accelerata”) che ci giri la testa via da tutto ciò che la nostra mente trasforma in oppressione e affanno, perché possa rispondere a quello strepitoso «Venite a me!», con una corsa dalle lacrime agli occhi… la corsa di chi sente rotte le catene – sempre e solo figlie della paura che nemmeno uno ci voglia bene… rotte appunto dalla buona notizia che, invece – come diceva il mio amico Davide (avvocato difensore) per i delinquenti («Ci deve essere almeno un rappresentante della società – l’avvocato appunto – che sta dalla sua parte!») – uno (almeno uno) che ti vuole bene, c’è sempre!

venerdì 24 giugno 2011

Corpus Domini

Domenica è la solennità del Corpus Domini: una solennità che risale al XIII secolo e che – nella sua istituzione – aveva l’intenzione di celebrare la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia. Non a caso tutte le letture che la Chiesa ci propone per questa domenica fanno riferimento al cibo che il Signore dà al suo popolo, che nell’Antico Testamento ha il suo emblema nella manna nel deserto e che nel Nuovo Testamento diventa il darsi di Gesù stesso ai suoi: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».


Le riflessioni che si potrebbero fare in proposito sono innumerevoli, così come gli spunti per ripensare alla nostra relazione col Signore a partire dal dono del suo corpo e del suo sangue, ma anche le attenzioni da avere: troppo spesso lungo la storia (e anche oggi) infatti la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia è stata intesa con un realismo esasperato o – viceversa – ridotta ad un simbolismo inconsistente. Sono famose in proposito le dispute del IX secolo tra Pascasio Radberto, Ratramno e Giovanni Scoto Eriugena e quelle dell’XI secolo tra Lanfranco di Pavia e Berengario… che porteranno al Concilio Lateranense IV (1215) e alla promulgazione del dogma della transustanziazione.

È difficile oggi entrare in questo dibattito, perché esso risente di una mentalità teologica ed antropologica di stampo metafisico che non è più la nostra... e che rischia di essere travisata, se approcciata con la cultura odierna.

Ciò che inoltre va ulteriormente a complicare il discorso e a costringermi ad entravi in punta di piedi è il fatto che oggi quella mentalità metafisica – abbattuta dalle riflessioni teologiche del XX secolo – non è ancora stata rimpiazzata da una teologia in grado di performare il mondo cristiano. Essa è ancora in “fase di elaborazione” all’interno delle scuole teologiche e – anche dove ha trovato ormai la forma del sistema (e non solo dell’idea abbozzata) – risulta ancora discussa e non di certo diffusa in senso egemonico (come era stato appunto per la metafisica medievale).

Tutto questo per dire che l’“affare” è più complicato di quello che a volte con riduzioni semplicistiche si vuol far credere, senza considerare le conseguenze – anche sul piano pratico/esistenziale – cui un’errata o parziale visione teologica può portare.

Non è certo però compito delle lectio inoltrarsi in una disquisizione teologica che – inevitabilmente – dovrebbe assumere linguaggi e strumenti specifici, che – data la situazione di passaggio del nostro tempo (è finita l’epoca metafisica, ma non si è ancora costruito con solidità un orizzonte di senso teologico rinnovato e condiviso) – risulterebbero un po’ ostici o per lo meno poco accessibili…

Compito della lectio è stare sulla Parola… la quale – come accennato – al di là di tutti i dubbi riflessivi, porta un dato certo: il Dio di Israele è il Dio che si preoccupa e si prende cura del suo popolo, nutrendolo; quello stesso Dio è il Padre di Gesù Cristo che si dà ai suoi… in un momento contingente della storia (nell’ultima cena), che però diventa accessibile per tutti nella memoria di quei suoi gesti e di quelle sue parole…

Contro ogni etereo spiritualismo, il Cristianesimo è quindi la fede in una persona in carne ed ossa, con una storia, con una libertà che si è determinata nel tempo: di lui noi diciamo che è Dio.

E – per entrare maggiormente a indagare il senso teologico ed esistenziale di questo suo essere Dio così – “rubiamo” le parole ad una donna che dell’umanità di Cristo ha fatto il centro della sua vita:

«1. […] In alcuni libri sull’orazione si dice che, sebbene l’anima non possa arrivare da sola a questo stato [unione mistica] – essendo una condizione del tutto soprannaturale e opera unicamente di Dio – potrà però aiutarsi, distaccando lo spirito da tutte le cose create ed elevandolo con umiltà.

[…] Tali libri raccomandano, inoltre, vivamente di allontanare da sé ogni immagine corporea per accedere alla contemplazione della divinità, perché dicono che, per coloro che sono ormai giunti tanto avanti, è d’imbarazzo e d’impedimento a una più perfetta contemplazione anche l’umanità di Cristo. […] Chi scrive questi libri ritiene dunque che […] considerarsi concretamente circondati da ogni parte da Dio e in lui sommerso è quello a cui devono tendere i nostri sforzi.

Questa mi sembra che possa essere una buona via da seguire, qualche volta, ma allontanarsi del tutto da Cristo […] non lo so ammettere.

2. […] A mio parere s’ingannano. Può essere che l’ingannata sia io, ma voglio dire ciò che mi è accaduto.

3. Poiché non avevo un maestro e leggevo quei libri […] procurai di allontanarmi da ogni cosa corporea, pur non osando elevare grandemente l’anima, il che mi sembrava – spregevole com’ero – una temerarietà. Avevo, però, l’impressione – ed era proprio così – di sentire la presenza di Dio e cercavo di starmene raccolta in lui. È un’orazione soave e molto gioiosa, se Dio ci aiuta. E, vedendo il profitto e il piacere che ne traevo, non solo sarebbe stato impossibile farmi tornare alla considerazione dell’umanità di Cristo, ma – a dire il vero – sembrava anche a me un ostacolo.

Oh, Signore dell’anima mia e mio bene, Gesù Cristo crocifisso! Non c’è una sola volta in cui mi ricordi di questo pensiero senza provare una gran pena: mi sembra, infatti, di aver commesso un gran tradimento, sia pure per ignoranza.

4. […] È mai possibile, mio Signore, che io abbia potuto pensare anche solo per un’ora che voi mi sareste stato d’impedimento per un bene maggiore?

6. […] E che abbia potuto io, mio Signore, allontanarmi da voi nell’intento di servirvi meglio! Almeno, quando vi offendevo non vi conoscevo, ma che, conoscendovi, abbia pensato di trarne maggior profitto seguendo questa strada, oh, che strada sbagliata battevo, Signore! Anzi, come mi sembra, ero del tutto fuori strada. […] Io vedo chiaramente, e l’ho visto dopo quell’inganno, che per essere graditi a Dio e per ottenere che ci doni speciali grazie, egli vuole che si passi attraverso questa sacralissima umanità di Cristo, in cui Sua Maestà disse di compiacersi.

[…] 9. Che noi a bella posta procuriamo di disabituarci dal cercare con tutte le nostre forze di aver sempre dinanzi – piacesse al Signore che fosse davvero sempre! – questa sacratissima umanità, è ciò che – ripeto – non mi sembra ben fatto. È, come suol dirsi, un camminare per aria, perché allora l’anima sembra andare senza appoggio, pur nella ferma convinzione di essere piena di Dio. È molto importante, finché viviamo in veste umana, aver presente il Signore come uomo.

10. […] Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia.

[…] Per questo è un bene, come ho detto, non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa.

[…] 11. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio. […] Quantunque abbia a soffrirne un po’, non giungerà mai a quella inquietudine e a quella pena di alcune persone che, se non si impegnano sempre a lavorare con l’intelletto e a far pratiche di devozione, pensano che tutto sia perduto, come se un così gran bene potesse essere merito dei loro sforzi.

Non dico che non ci si debba impegnare ad ottenerlo e a stare ben raccolti davanti a Dio, ma che, se non si riesce ad avere neppure un buon pensiero, non ci si disperi.

[…] 14. Voglio, dunque, concludere così: che quando pensiamo a Cristo, dobbiamo sempre ricordarci dell’amore con il quale ci ha fatto tante grazie, e di quello, immenso, che ci ha testimoniato dio col darcene tale pegno. Amore chiama amore, e anche se siamo agli inizi e tanto miserabili, cerchiamo di riflettere sempre su questa verità e di stimolarci all’amore» [Santa Teresa di Gesù, Vita 22].

giovedì 9 giugno 2011

L'ascensione

«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].


Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa domenica di Ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare.

Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa, allora come oggi, implica infatti una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza!

Troppo spesso invece noi di questa esperienza di orfanità patita nell’ascensione ci dimentichiamo, riducendo questo elemento della fede cristiana a non molto altro che il momento in cui “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… Saltiamo cioè a piè pari quello che ha voluto dire per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… Poi, certo, patiamo questa cosa, ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… ci dimentichiamo del problema…

Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria, di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…

È questa, dunque, la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, lontano, invisibile, nel senso di irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva. Tanto che – anche se non vorremmo – spesso ci ritroviamo per la testa o nel cuore pensieri simili a quelli che il libro della Sapienza mette in bocca agli empi: «Dicono fra loro sragionando: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile. Il nostro nome cadrà, con il tempo, nell’oblio e nessuno ricorderà le nostre opere. La nostra vita passerà come traccia di nuvola, si dissolverà come nebbia messa in fuga dai raggi del sole e abbattuta dal suo calore. Passaggio di un’ombra è infatti la nostra esistenza e non c’è ritorno quando viene la nostra fine, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile”» (Sap 2,1-11)…

È qui che si arriva se si prende sul serio ciò che avviene nell’ascensione e se non si riesce a comprenderla fino in fondo. Perché l’assenza fisica di Gesù che essa impone è il dramma della debole fede di noi uomini di ogni generazione. Infatti il problema a cui l’ascensione rimanda, è precisamente questo: È possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o esso ha consistenza o noi non l’abbiamo? Oppure bisogna – con gli empi della Sapienza – rassegnarsi ad una vita senza senso e senza compimento, che di conseguenza si abbandona all’edonismo (cosa che peraltro sta epocalmente avvenendo)?

Molti sembrano incamminarsi per questa strada… Non solo chi la ostenta come l’unica via per l’uomo coraggioso (finalmente maggiorenne), capace di fronteggiare la morte di Dio, di nietzschiana memoria; ma anche chi aveva davvero creduto alla possibilità di costruire una vita sul fondamento della fede nel volto paterno del Dio di Gesù, ma poi, sull’onda delle fatiche della storia, dell’abbandono dei fratelli, della morte degli amati, dell’assenza (appunto!) non ha più retto alla dinamica dell’amore in perdita che il vangelo propone e – spaventato dalla morte – s’è messo a pensare a sé…

Altri invece – che forse si credono uomini di maggior fede ma che invece sono altrettanto impauriti dall’assenza del Signore quanto gli altri – non fanno altro che fermarsi col naso all’insù, aspettando il suo ritorno…

Ma gli Atti degli apostoli, in proposito, sono fin troppo netti: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».

C’è dunque – secondo il racconto di Atti – una lontananza, una distanza, un’assenza… che non è negata… Eppure essa è riletta dentro ad un’ottica diversa da quella della paura: l’assenza del Signore, condensatasi letterariamente nell’episodio dell’ascensione, non è destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi – stando al racconto di Luca – che ci sia una possibilità di continuazione della vita («perché state a guardare il cielo?»). E non solo della vita biologica o della mera sopravvivenza fisiologica, ma della Vita con la “V” maiuscola proposta dal Signore. È come se la sua dipartita, oltre ad un’assenza che sperimentiamo e patiamo, implichi però qualcosa d’altro, qualcosa di più, un passo ulteriore: non è tutto finito con l’ascensione di Gesù…

Non a caso Luca racconta lo stesso episodio in conclusione al Vangelo e in apertura agli Atti… scelta letteraria che, forse, prima di essere spiegata attraverso slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa”, domanda un approfondimento ulteriore: Cosa vuol dire davvero questa ascensione?

Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre, «… una passione “umana” infuocata è entrata dentro Dio ed ha assunto la potenza di Dio. È un corpo umano tanto sprofondato e assorbito nella divinità che con essa può impregnare di tenerezza “umana” divinizzata ogni cosa e tracima invadendo tutto il mondo, l’universo, gli angeli e ogni essere che possa esistere, nel tempo e fuori del tempo, come Dio un Dio di carne trasfigurata, che sa cos’è lo spazio e il tempo e la materia, ma non lo limitano più. Ecco l’Ascensione!» [Giuliano]. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui» [don Dossetti]. Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa, ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 100]. «È nell’intimo del nostro essere, dove la benevolenza del Padre ci genera all’unica vita dell’essere e dell’amore, che occorre rientrare per prendere il contatto vitale con Gesù mentre è “trasferito” nel Padre. Perché lì Gesù è “ritornato” e abita come uomo / Dio. Ha trascinato e coinvolto nella sua “glorificazione” (inserimento nel cuore del Padre) tutto l’essere umano, tutto il nostro faticoso rapporto con la storia che ci conduce e ci travolge, tutta la realtà che noi diciamo terrestre, che l’ha nutrito e intriso nella sua vita terrena. Ma soprattutto la rete vitale dei rapporti umani che hanno intessuto e fatto crescere il suo vissuto umano conoscitivo e affettivo… i suoi amori e le sue piaghe, le sue fatiche e le sue gioie. “Tutto questo”, nato e cresciuto nell’avventura umana di Gesù nella persona del Verbo, è stato come raccolto, condensato e imploso nell’intimo di Dio… Ma “tutto questo” non è andato ad abitare chissà dove (cieli, super cieli, troni potestà… che nell’immaginario religioso erano il luogo degno di Dio), ma è andato ad abitare nel profondo del nostro cuore, perché non c’è altro luogo più degno nell’universo, più capace (pur nella sua miserrima fragilità!) di interloquire da amico con Dio, per il dono che il Padre stesso gli ha fatto di “essere per”… e di essere figlio, fratello di Gesù» [Giuliano].
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