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giovedì 4 ottobre 2007

Lectio XXVII domenica del tempo ordinario (anno C)

«Fino a quando Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?».

La liturgia di questa domenica parte con uno dei gridi fondamentali dell’uomo… Uno di quelli che, quasi anche fisicamente, arrivano dalle tortuose profondità e tenebre del nostro cuore: “Perché Signore non hai ritratto la mia mano, quando si è alzata contro mio fratello? Perché non hai ritratto la mano di chiunque l’alzasse contro l’altro?”… Insomma: “Signore, perché non intervieni in questo nostro mondo?”…
Oggi forse la teologia (o chi per lei…) risponderebbe che la domanda è posta male… che il problema non è “Che fine ha fatto Dio?”, ma “Che fine ha fatto l’uomo?”… e per certi versi questa riflessione indirizza bene la questione…
Ma la radicalità del grido di Abacuc non può comunque essere eluso… Ogni risposta che si può tentare di dare, ogni riflessione che giustamente va fatta, deve però prima farsi esistenzialmente scarnificare dalla tragedia del dolore (in particolare di quello innocente), del male che l’uomo fa all’uomo, del terrore che questo grido rimbalzi inascoltato nello spazio infinito per sempre e che mai nessuno si farà carico (per dirla alla Sequeri) della ferita di un bimbo violato in qualche parte del mondo…
Non eludere, ma attraversare questa drammaticità della vita, della storia, del cuore dell’uomo, non vuol dire però diventare sordi all’eco di risposta che giunge alle orecchie del profeta: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà».
In effetti la scadenza attesa è arrivata…
Per la Chiesa Gesù è il termine del “silenzio di Dio”… è la sua risposta…
A prima vista una risposta che lascia un po’ sbigottiti… sembra una risposta che fa tutto tranne che rispondere: la questione del male resta non spiegata, tant’è che dopo duemila anni siamo ancora qui, con lo stesso grido che qualche secolo prima di Cristo aveva Abacuc nel cuore e sulle labbra…
Questo però non smentisce il fatto che Gesù sia la Parola di Dio, la rottura del suo silenzio, la sua Rivelazione… anzi… proprio perché parola di Dio, è così scostante rispetto alle parole degli uomini…
Gesù (o meglio il Padre, in Gesù) risponde al grido dell’uomo!
Ma risponde a modo suo
(“da Dio” qualcuno commenterebbe) non spiegando il perché o l’origine del male, ma assumendolo, attraversandolo: dopo quel crocifisso nessuno può più dubitare che “la ferita di un bimbo violato in qualche parte del mondo…” risuoni inascoltata per l’infinità vuota dell’universo.
Proprio questa “strana” risposta, costruita sulla logica della com-passione, del farsi uomo tra gli uomini di Gesù, tanto solidale da avere anche lui il suo grido “Dio mio perché mi hai abbandonato?”, diventa l’urlo soffocato di Dio all’uomo…
Solo ora, attraversata la tragicità dell’uomo e la tragicità di Dio, la risposta cui accennavamo prima diventa significativa: “Che ne è dell’uomo? Che ne è, in particolare dell’uomo in Cristo (= cristiano)?”…

Ed ecco l’ammonizione di Paolo: «Carissimo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te […]. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. […] Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito santo che abita in noi».
All’urlo di Dio che trasuda la logica del com-patire, l’uomo può rispondere intrecciandosi con lo Spirito di Cristo… L’uomo diventa capace di rispondere all’urlo di Dio, che coincide con l’urlo di chiunque sia toccato dal male (cioè, ogni uomo), divenendo cristico, cioè inventando la sua vita assumendo la logica, la sostanza, il sangue, la carne, lo spirito, l’ essenza… di Cristo.

Questa è la fede che gli apostoli nel Vangelo chiedono a Gesù… Un rapporto talmente intenso che uno vive nell’altro (cfr. Paolo: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me»).

In tutto questo che senso hanno le parole di Gesù…? Perché parla di servi, doveri, inutilità? Non sono questi termini che hanno una connotazione opposta ad ogni rapporto d’amore?
La lettura classica (non necessariamente quella “bigotta” che han fatto i preti, ma semplicemente quella immediata che ci giunge alla mente, forse per il dio-idolo-despota che abbiamo nel cuore) ci riporta a pensarci come servi (schiavi) di un dio onnipotente a cui per forza io dovrò qualcosa… e certo questo qualcosa sarà sempre inutile, insufficiente…
Cosa ci permette di scartare questa lettura? Il fatto che l’idea di dio (padrone) e di uomo (soggiogato a doveri e alla continua frustrazione per la sua inutilità davanti alla divinità) non corrispondono né all’idea di Dio né all’idea dell’uomo che ha Gesù.
Mi fa sorridere in proposito ripensare al fatto che prima di ragionarci su in questi giorni, questo brano di Luca mi stava proprio antipatico: infatti, alcuni ragazzi dell’oratorio che frequentavo da ragazza lo avevano appeso in una sala e continuamente rinfacciavano agli altri tutti i servizi che loro facevano dicendo ad alta voce proprio questa frase “Eh… cosa vuoi… tanto poi alla fine siamo servi inutili…”. E non si accorgevano che ribaltavano il senso di quell’espressione...
Io credo infatti che il “dovere” di cui qui si parla («quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato») sia riferibile solo al dovere che nasce dall’amore, dalla com-passione… dal fatto che davvero non posso non fare il bene di mio fratello (perché è questo quello che ci è stato ordinato…), devo farlo: dovevo aiutare Ale a preparare il bac, dovevo accogliere in casa un’amica affaticata che mi ha riversato addosso 500.000 parole a volume impressionante, dovevo...
Ma è davvero il dovere degli innamorati… che davvero per l’amata/o farebbero qualsiasi cosa… sentono che devono e non lo leggono proprio come una costrizione frustrante!!
È il bene che vuoi all’altro che ti obbliga.
E in quest’ottica anche l’essere “servi” e l’essere “inutili” trovano un’altra risonanza…
Volere bene è sempre “mettersi a servizio”, esserci per l’altro e non per sé.
E questo è inutile di sicuro… non mi fa guadagnare (anzi nella logica del “do ut des” concretamente ci perdo di sicuro)… non mi fa guadagnare neanche “punti paradiso”… ma perché?
Perché non c’è niente da guadagnare… infatti “fare quello che dobbiamo fare” è proprio solo entrare nel Regno, vivere da innamorati con tutti, metterci al servizio, com-patendo con tutti i figli che, come dice De Andrè: “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”!

1 commento:

mario ha detto...

Bella e originale!, mi piace molto... continua così...

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