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sabato 28 novembre 2009

Delle cose ultime... Secondo Luca

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa prima domenica di Avvento (C) è tratto dal capitolo 21 di Luca, l’evangelista che accompagnerà l’anno liturgico che proprio oggi si inaugura.
Commentare questo testo però risulta assai difficile: innanzitutto per l’intrinseca difficoltà legata al linguaggio apocalittico che lo caratterizza; inoltre per il fatto che esso appare del tutto simile al vangelo commentato solo quindici fa, nella trentatreesima domenica del tempo ordinario (B), dove era presentata precisamente la versione parallela al nostro brano, secondo l’evangelista Marco…
Per ovviare a queste difficoltà, ed evitare di ripetermi da un lato, e di omettere indicazioni utili solo per paura di ridire sempre le stesse cose dall’altro, scelgo di rifarmi a quanto scritto in quell’occasione per quanto riguarda l’inquadramento teologico-biblico del testo (che altrimenti risulterebbe incomprensibile o – peggio – rischierebbe di essere frainteso), e di proseguire invece in maniera originale per quanto riguarda lo sviluppo delle specificità caratterizzanti l’odierna liturgia della Parola.
Per quanto riguarda il primo versante della questione, è allora innanzitutto utile ricordare che la tematica del vangelo, quella “delle cose ultime”, dell’escatologia, di ciò che deve accadere, era stato definito “tema arduo”, tanto che «J. Schmidt – come ricordava don Bruno Maggioni ne Il racconto di Marco –, scrive: “quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica” [J. SCHMIDT, L’evangelo secondo Marco, Brescia 1956]. J. Schmidt ha ragione – proseguiva Maggioni –: non è facile comprendere il genere letterario a cui il discorso appartiene (il genere apocalittico) e non è facile ricostruire le situazioni che sembra supporre. […] Non possiamo [quindi] fare a meno di una premessa teologica e letteraria riguardante l’escatologia e l’apocalittica: il discorso s’inserisce infatti in questo filone teologico e letterario.

Il significato più ovvio di “escatologia” è quello di discorso sulle ultime e definitive realtà. Certo si tratta – anche se questa convinzione è maturata lentamente e faticosamente – di realtà che vanno oltre la storia, ma ciò non significa che esse non si preparino dentro la storia. In effetti l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla».
Questa indicazione è molto interessante, libera infatti il campo da quelle interpretazioni banali e infondate che leggono nei testi biblici di genere apocalittico un tentativo di penetrare i segreti di Dio o di cedere alle curiosità “del quando e del come”. Niente di tutto questo!
Anzi, fondamentale per la corretta interpretazione di questi brani, è un’ulteriore annotazione teologico-letteraria: sempre Maggioni infatti ci ricorda che «il linguaggio di questa letteratura è tipico: descrive gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e carestie, di catastrofi cosmiche, e tutto questo nel segno di una grande subitaneità. Questo linguaggio è ampiamente presente nel discorso di Luca: non è il messaggio, ma semplicemente un mezzo espressivo che tenta di comunicarcelo. In nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera».
Ma, dunque, se sono vere le annotazioni preliminari cha abbiamo fatto (se cioè l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla e se il linguaggio apocalittico non coincide con il messaggio, tanto che in nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera), sorge immediata la domanda riguardo a quale sia allora il messaggio sulla storia che – attraverso questo linguaggio sulle cose ultime – Luca sta proponendo…
In questo senso due paiono le certezze che emergono dal testo: innanzitutto il fatto che Gesù preveda tempi difficili e disorientanti per i suoi discepoli («Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte»); ma, d’altro canto, che questi tempi saranno accompagnati dalla venuta del Figlio dell’uomo («Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria»).
Rispetto ai “tempi difficili e disorientanti” non è necessario soffermarsi a lungo: tutti hanno ben presente quanto la storia dell’umanità e la storia della propria vita personale siano caratterizzate da difficoltà e disorientamenti, paure e angosce, fallimenti e trepidazioni, fatiche e sofferenze, assurdità e rassegnazione… E in questo senso risulta immediata la comprensione di quanto si diceva in precedenza sul genere letterario apocalittico: esso sembra parlare del futuro, ma in realtà sta interrogando il presente; il presente di ciascun uomo, fatto appunto di “tempi difficili e disorientanti”… è la vita dell’uomo di sempre infatti ad essere difficile e disorientante!
Il problema allora diventa quello di come guardare a questo presente difficile e disorientante che ogni uomo – a qualunque generazione dell’umanità egli appartenga – incontra. Il suggerimento del vangelo è quello di farlo a partire dalla fine, di provare a guardare – appunto – il presente a partire dal futuro, a tirarsi come fuori da esso e guardarlo come se fosse un film in cui noi ci poniamo alla fine.
Precisamente questo è il senso del giudizio divino paventato da queste pagine: se oggi dovesse darsi il giudizio del Figlio dell’uomo sulla tua vita, che cosa direbbe del tuo presente? Si ipotizza dunque un futuro imminente, ma per attirare l’attenzione sul proprio oggi, sulla vita che si sta conducendo, su che cosa stiamo facendo di noi stessi, ecc: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Questa certezza del giudizio, questo inevitabile “comparire davanti al Figlio dell’uomo” nel giorno che ritornerà, va però compreso bene. Esso infatti è abitualmente collocato tra due estremi, entrambi inaccettabili: da un lato l’identificazione di Gesù con un severo giudice dalle caratteristiche totalmente umane, che premia e punisce a seconda del comportamento morale di ciascun uomo e, di conseguenza, spedisce all’inferno (i più) o in paradiso (i pochi eletti)… dall’altro – precisamente in contrapposizione alla mentalità precedente, spesso rilanciata dalla Chiesa preconciliare e ormai rifiutata per totale inconciliabilità col vangelo (cfr. Mt 5,4348; Mt 20,1-16; Lc 15,11-32; Lc 23,34; ma in generale tutta l’intelligenza del vangelo nel suo insieme) – la censura e l’esclusione del giudizio, per cui andrebbe comunque sempre tutto bene.
Il dato evangelico è invece la certezza di questo ritorno giudicante del Figlio dell’uomo. Diventa perciò importante cercare di sapere sulla base di quale criterio avverrà tale giudizio: «il ritorno del Figlio dell’uomo in potenza e gloria non significa in alcun modo che Dio, alla fine, abbandonerà la strada dell’amore (la logica della Croce) per sostituirvi quella della potenza. Se così fosse, la Croce non sarebbe più il centro del piano di salvezza e la sequela del Crocifisso non sarebbe più l’elemento decisivo: lo stesso comportamento di Dio darebbe ragione, in ultima analisi, a tutti coloro che affermano che l’amore è inutile, incapace di completa liberazione. Nulla di tutto questo. Il ritorno del Figlio dell’uomo sarà il trionfo del Crocifisso, la rivelazione che l’amore (e non altro) è il vero fatto che costruisce la salvezza» [B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella editrice, Assisi 2001, 357].
Il criterio del giudizio dunque, il punto prospettico con cui guardare dal futuro al nostro oggi è quello che nel linguaggio di Paolo suona in questo modo: «Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi». L’irreprensibilità è posta dunque sulla santità così come l’essere immacolati sull’amore: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità » (Ef 1,3-4).
Il “metro” dunque con cui saremo giudicati e il “metro” dunque con cui dobbiamo guardare al nostro oggi, per quanto difficile e disorientante, è l’amore con cui ci si sta dilatando l’anima… per farci star dentro tutti quelli che ne hanno/avranno bisogno…
Precisamente questo annuncio – che coincide con tutta la vita di Gesù – è ciò che dischiude nuovamente – e nonostante tutte le disillusioni e i fallimenti della nostra Vita – la possibilità di un affidamento al senso, la possibilità del credere, la possibilità della fede… di quel dar credito che permette di guardare ai “tempi difficili” come a sequenze di un film, di cui non diventano mai l’anima. Esse possono far temere, trepidare, scoraggiare… ma non saranno mai la chiave interpretativa dell’interezza della vita, il cui polo gravitazionale – il senso – sta altrove… e cioè precisamente in quegli sprazzi di umanità amante e amata che si sono sperimentati. Su quello sarà giudicata la nostra vita e quella dell’umanità tutta…

3 commenti:

.Cecilia ha detto...

Precisamente questo è il senso del giudizio divino paventato da queste pagine: se oggi dovesse darsi il giudizio del Figlio dell’uomo sulla tua vita, che cosa direbbe del tuo presente?

Pienamente immersa in questa domanda, negli ultimi tempi (nei quali penso non poco ai "tempi ultimi") mi capita di chiedermi non tanto se quel che faccio mi dilata il cuore o meno (ho una mia personale risposta, che tengo e discuto tra me e d-o) quanto piuttosto se quel che faccio rappresenta il massimo che è nelle mie possibilità, oppure no: se quella dilatazione tende ad essere "piena" o parziale.
Penso faccia differenza anche questo.
Certo, solo HaShem può rispondere in maniera realmente definitiva.
Mi sembra di vivere un rompicapo, dal quale dipende però la riuscita di un'intera vita.

'ntonia ha detto...

E' il pensare da soli, la solitudine del nostro rapporto solitario con il Signore che ci rende poco "affabili"... Se il nostro cuore si dilata all'amore di Dio, attraverso le persone che LUI ci fa incontrare in tutti i luoghi: le strade, gli uffici, i bar, la posta .....
nella vita di tutti i giorni con il cuore pesante per la fatica di vivere ma leggero perchè lo fai per LUI, solo dedicato a LUI.

.Cecilia ha detto...

capisco bene cosa vuoi dire, 'ntonia.
molte delle mie domande nascono (anche) dal fallimento, in modi diversi, di alcuni dei rapporti più significativi che ho avuto nella mia vita. di quelli nati proprio da quella dilatazione, e alimentati da quella prima che da tutto il resto.

forse, per me, si tratta davvero di rimanere un po' da sola con HaShem, adesso. può darsi che abbia bisogno di fare il punto, anzi di questo bisogno ne ho senza dubbio.
poi, in realtà, ciò che vivo con il Signore non rimane praticamente mai "nascosto", privato; c'è sempre una sorta di trasmissione fuori da me - con le poche, ma debite eccezioni.
anche l'essere qui significa qualcosa, effettivamente.

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