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giovedì 19 febbraio 2009

In gioco l'identità di Dio

In questa settima domenica del tempo ordinario, le letture che la Chiesa ci propone – in particolare la prima e il vangelo – pongono in campo la tematica dell’identità di Dio. Seppur in modo diverso infatti, entrambe contengono un pronunciarsi del Signore (di JHWH in Isaia, di Gesù in Marco), un suo dirsi, un suo dire di sé, non privo di conseguenze.

Per quanto riguarda la prima lettura ci troviamo nella sezione del libro che i biblisti attribuiscono al cosiddetto Deuteroisaia, o secondo Isaia, cioè il profeta anonimo vissuto ai tempi dell’esilio in Babilonia (circa II secoli dopo il I Isaia), il cui lavoro è stato poi redazionalmente unito a quello del profeta dell’VIII secolo a.C.

La situazione storica che fa da sfondo alla “dichiarazione d’intenti” pronunciata dal Signore nei nostri versetti, è dunque l’esilio in Babilonia, tempo in cui l’abbattimento, la sfiducia e la tristezza opprimevano il cuore dei deportati. Ci si domandava se il Signore si fosse dimenticato del suo popolo, se la sua parola contasse ancora, se vi fosse ancora speranza.

Ed è inutile sottolineare l’attualità di questa condizione interiore dell’uomo; come queste stesse caratteristiche appaiano adattissime a descrivere anche il cuore dell’uomo di oggi, forse dell’uomo di sempre… lo scoramento, il dubbio se ne valga veramente la pena, l’angoscia, la domanda su una speranza ancora possibile…

Ma forse proprio perché non si tratta solo della situazione contingente dei deportati in Babilonia, ma della condizione umana tout court, ha ancora più rilevanza l’irrompere di Dio in questa desolazione, il suo dirsi, il suo annunciarsi come colui che porta un nuovo esodo, una liberazione attuale.

Proprio nel tempo dell’abbattimento più cupo, proprio allora quando sembra impossibile tornare a dare credito a un senso, proprio quando in discussione è messo il Signore stesso, la sua identità, Egli decide di rivelarsi, di tornare a intrecciarsi “l’anima” con l’uomo.

Il Signore infatti si annuncia non più solo come colui che nel passato ha liberato il suo popolo dall’Egitto (un episodio del passato, certo originario, fondante, ma forse proprio per questo quasi mitico, lontano, etereo), ma come colui che attualmente libera le nuove generazioni del suo popolo, che è fedele sempre, che rinnova le sue promesse e la sua alleanza con ciascun figlio dell’uomo che nasce su questa terra: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova». 

Questo “fare cose nuove”, questo dirsi nell’attualità, per quanto forse alle nostre orecchie di cristiani del duemila suoni scontato, in realtà ha bisogno di essere continuamente ribadito, perché è la chiave di lettura della vita cristiana e umana: il Signore è colui che mi si rivolge, mi interpella, mi si dice, mi libera, mi fa fiorire l’anima.

Va ribadito soprattutto perchè non sempre è stato così evidente nella vita della Chiesa. Troppo spesso infatti essa, ovviamente nelle sue “alte sfere”, ha temuto che questa prospettiva rischiasse di incastrarsi in dinamiche intimistiche, relativistiche, solipsistiche (un rischio serio e da tenere certo in considerazione e che probabilmente è stato anche più volte percorso, se la Chiesa ha sentito il bisogno di arginarlo così duramente). Però per paura di individualismi (un paura positiva quando l’obiettivo era favorire l’unità dei cristiani e il bene del singolo, negativa quando mirava semplicemente a evitare la messa in discussione del proprio potere), la Chiesa ha proposto per secoli una religiosità “cameratista”, irreggimentata, orchestrata, considerando invece i singoli non all’altezza di un rapporto personale serio con il Signore (cfr l’accesso al testo biblico da parte della gente comune prima degli anni ’60 del ‘900!!!). E se si può riconoscere che certo, le persone vanno educate, aiutate, accompagnate, non si può nascondere che la meta fosse quella della relazione personale col Signore, che la Chiesa avrebbe dovuto portarle lì e invece per secoli non lo ha fatto, se non in epifenomeni particolarmente fortunati e comunque anch’essi contrastati dall’istituzione…

E non a caso, perso di vista il rapporto personale col Signore, la gente si è accorta che tutta l’impalcatura religiosa che la società e la vita personale continuavano a portare avanti, perdeva senso, anzi rischiava di diventare ingabbiante, minacciosa, violenta. E di fatti l’hanno abbandonata.

Per questo è allora così fondamentale tornare a queste parole del Deuteroisaia: egli rivendica la contemporaneità di ciascun uomo al Signore stesso, la possibilità di mescolare con lui la libertà, di scrivere con lui la storia.

E come si accennava già in precedenza, quella di Isaia è una rivendicazione ancora più pretenziosa (e però più realistica) perché cade proprio nel tempo della prova, nel tempo della disfatta umana, nel tempo della sfiducia. È in questa situazione (che è la situazione più percorsa dall’uomo di sempre), che il Signore ribadisce chi lui sia. Proprio quando tutto entra in crisi e lui stesso ai nostri occhi appare un’illusione, la sua parola per noi è che con lui il deserto fiorisce: dove passa lui vengon fuori le margherite dalla sabbia! Che fuor di metafora vuol dire che dove passa lui la morte diventa vita, la stanchezza vigore, la depressione voglia di vivere, la solitudine abitata, la paura pacificazione…

Così Dio si dice: e non a caso Gesù è proprio colui che risana il dentro e il fuori dell’uomo. A Giovanni Battista in carcere che manda i suoi discepoli a chiedergli se era davvero lui quello che doveva venire o se ne dovevano aspettare un altro, lui risponde mostrando il deserto che fiorisce: «Andate a riferire a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo» (Mt 11,4-5).

Il problema è che proprio questa identità di Dio in Gesù è messa in discussione: in gioco c’è l’identità di Dio, che, se malcompresa, è la cosa più pericolosa per l’uomo. Da essa infatti dipende il nostro modo di pensare la vita, gli altri, l’amore, la morte, ecc… Fallire l’idea di Dio è fallire la vita.

Ci si potrebbe dilungare sulle false idee di Dio (gli idoli, che non a caso sono a tema nei versetti successivi a quelli della prima lettura), ma per essere più aderenti al vangelo è necessario oggi mettere a tema una difficoltà diversa: qui non si sta parlando di un’idea sbagliata di Dio, ma del rifiuto dell’idea giusta. Che Gesù sia Dio così e quindi che Dio sia così come è Gesù, suscita reazioni di opposizione, di diniego, di rifiuto… non a caso anche il versetto che segue la risposta di Gesù ai discepoli di Giovanni Battista suona: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo» (Mt 11,6). Addirittura la contrapposizione diventa violenza: Gesù morirà in croce, condannato per bestemmia: «Si è fatto Dio»… che è la stessa accusa che emerge già nei versetti del vangelo di Marco proposto dalla liturgia di questa domenica: siamo solo al capitolo due e l’evangelista sente già l’esigenza di mettere in campo le reazioni contro Gesù.

Infatti a partire da 2,1 a 3,6 raggruppa una serie di cinque controversie contro Gesù: la nostra riguardante la possibilità da parte di Gesù di rimettere i peccati, la seconda riguardante la sua abitudine di mangiare con i peccatori, la terza sul digiuno, la quarta e la quinta sul sabato. Come già evidenziato, in gioco non è la disputa su cavilli interpretativi della legislazione ebraica, non sono questioni di scuola. In gioco c’è la messa in discussione dell’identità di Gesù e più radicalmente di Dio: il Signore non può essere così.

Se questa reazione è comprensibile per i farisei contemporanei a Gesù (che – non dobbiamo dimenticarlo – avevano davanti quello che a loro appariva in tutto e per tutto un uomo qualunque e che però pretendeva, per esempio nel nostro brano, di arrogarsi prerogative esclusivamente riservate a Dio: perdonare i peccati!), per l’evangelista diventano incomprensibili a posteriori. Dopo la morte e risurrezione di Gesù, dopo l’attesa di secoli, la stragrande maggioranza del popolo ebraico non ha riconosciuto il suo Messia. E non l’ha riconosciuto perché non gli sembrava vero un Dio così, un Dio che si fa uomo, un Dio che muore.

L’intento di Marco allora è quello di preparare l’animo del suo lettore, l’animo dell’uomo, l’animo di ciascun uomo, reso terreno accidentato dalle prove, dalle sofferenze, dalle delusioni e dalle infedeltà, perché possa accogliere che Gesù è Dio, colui che fa fiorire il deserto.

Per poter arrivare con Etty a dire: «Mio Dio, viviamo tempi di terrore. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, con gli occhi brucianti, e immagini di sofferenza umana si snodavano davanti a me, senza sosta. Ti voglio però promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: […] Ti aiuterò, mio Dio, a non spegnerti dentro di me. […] Dietro la casa, la pioggia e la grandine dei giorni scorsi hanno devastato il gelsomino. Più in basso i suoi fiori bianchi galleggiano sparpagliati nelle pozzanghere nere, che ristagnano sul tetto del garage. Ma da qualche parte, dentro di me, questo gelsomino continua a fiorire, esuberante e tenero come in passato. Ed espande i suoi effluvi intorno alla tua dimora, mio Dio».

Da questo punto invece sovrascrivi a queste parole la sua continuazione in modo che la pagina principale del blog non sia appesantita e chi vuole continuare la lettura deve cliccare su continua. (naturalmente puoi dopo sopprimere la linea vuota

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