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venerdì 13 febbraio 2009

La radicale proposta di Gesù: perdere la vita per l'altro (lebbroso)

In questa sesta domenica del tempo ordinario, le letture che la Chiesa ci propone hanno come filo conduttore la tematica relativa alla lebbra. In particolare il testo del libro del Levitico sembra proprio essere stato scelto ad hoc per informarci riguardo al contesto socio-culturale in cui si inseriva tale problematica, centrale anche nel brano del vangelo di Marco.

Innanzitutto va ricordato che la legislazione presente nel libro del Levitico riguardo alla lebbra è molto più ampia rispetto ai pochi versetti che si leggono a messa: occupa infatti addirittura due interi capitoli (il 13 e il 14). Questo perché l’argomento è “scottante”. Con il termine “lebbra” infatti non si intende semplicemente e specificamente quella malattia che oggi la medicina definisce clinicamente come tale, ma l’insieme di tutte le diverse malattie che interessano la pelle, comprese le varie alterazioni di materiali come le stoffe o i muri delle case. Legiferare su tale argomento è perciò importantissimo perché si sta parlando di malattie contagiose, o ritenute tali: quella che perciò a noi può sembrare una norma discriminante, in realtà ha invece lo scopo di difendere la comunità dall’eventuale diffusione della malattia.

È quella che potremmo chiamare “reazione immunitaria” della società, quella per cui – come dirà Caifa per Gesù in Gv 11,50 suggerendone così la morte – «è conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!».

Questa prospettiva, politica prima ancora che personale, non è per niente irrazionale: a prima vista sembra addirittura necessaria, sembra salvaguardare il principio positivo della salvezza dei più, un principio che in diverse circostanze ha davvero messo in salvo la vita di tanti… Non è dunque immediatamente o troppo facilmente da individuare e catalogare come meschina, egoistica, cattiva. Ha una sua ragion d’essere.

Eppure… non si può tacere il fatto che la proposta evangelica sia un’altra.

Se si allarga un po’ l’orizzonte infatti si vede come la logica che partorisce il principio di Caifa sia una logica che al centro ha il “salvarsi la vita” – la nostra o quella “dei nostri”: della nostra famiglia, dei nostri amici, dei nostri confratelli, dei nostri correligionari, dei nostri connazionali, ecc… Come già anticipato non è una logica immediatamente cattiva (lo sarebbe se avesse come perno per esempio, la distruzione di chi non è dei nostri), eppure subdolamente introduce due corollari evangelicamente inaccettabili: il primo è quello per cui il mondo è guardato inevitabilmente con gli occhi di chi lo divide in categorie – i “nostri” gli altri – e questo ben prima che essere un problema politico – pensiamo al modo di porsi attuale nei confronti degli extra-comunitari – è un problema personale – la discriminazione è molto più vicina a noi di quanto pensiamo, è molto prima e molto al di là degli epifenomeni visibili come l’indiano bruciato alla stazione, è dentro le nostre case, è nei nostri conventi, è nei nostri cuori. Io almeno personalmente lo sento forte sulla mia pelle, al lavoro, in fraternità, nella chiesa, nella società. E tanto radicalmente sento di subire questa logica, tanto radicalmente sento anche di rilanciarla: perché appunto, non è immediatamente evidente nella sua perversità, anzi apparentemente salvaguarda – come detto – un principio positivo: la salvezza della propria vita; e allora per scovarla e per riscoprirci noi stessi “rilanciatori” di tale logica è necessario fare la fatica di indagare le dinamiche profonde del nostro agire, le radici più nascoste del nostro decidere e decidere chi essere… e questo non sempre si può o si riesce a farlo…

In più c’è un secondo corollario che svela la malvagità intrinseca della logica di Caifa: essa è in radice sempre omicida; non esiste salvezza della propria vita e dei propri cari (famiglia, amici, confratelli, correligionari, connazionali…) se non sulla pelle di qualcun altro. È l’atavico principio del mors tua vita mea, riconducibile all’arcaico istinto di sopravvivenza, tanto utile e dunque immediatamente non da disdegnare – non saremmo qui se non ci fosse e non ci fosse stato – quanto da riconoscere nella sua potenzialità letale per l’altro.

La situazione è dunque davvero difficile da com-prendere e dipanare: essa infatti non è una palese mostruosità che tutti condannerebbero al volo senza bisogno di pensarci su; è più strisciante, è più nascosta, chiama in causa diverse corde sensibili della nostra interiorità, per cui è molto più difficilmente governabile e giudicabile. Ma forse, proprio per questa sua dimensione carsica, è molto più simile alle drammaticità quotidiane che il cuore umano deve affrontare: sono molto più questi i problemi radicali della vita, che le mille questioni in cui ci disperdiamo. Essi infatti non toccano solo il nostro dover prendere posizione contingente, ma la logica con la quale scegliamo di porci nel mondo, la prospettiva con la quale guardare alle cose, l’orizzonte di senso nel quale decidere chi vogliamo essere. E queste sono dimensioni umane sulle quali non si può essere superficiali (pena il vivere un’esistenza banale), né incoerenti (pena il non poter mai dire “io”).

Ma dunque come ci si deve porre di fronte al lebbroso? Di fronte a colui cioè che – colpevolmente o meno – minaccia la salvezza della nostra vita e della vita dei nostri?

La tragica risposta di Gesù è quella per cui il principio della “salvezza della propria vita” non deve governare il nostro cuore: Egli ribalta infatti la logica dell’istintivo bisogno di sopravvivenza, inaugurando la prospettiva del mors mea vita tua. Gesù infatti sceglierà di assumere su di sé il male e di non rilanciarlo su nessun altro: lo conterrà in sé annientandone la carica malefica.

E infatti… Con nelle orecchie la memoria dei passi biblici del Levitico Gesù incontra il lebbroso.

Quest’ultimo non dev’essere guardato esclusivamente come il simbolo dell’emarginazione sociale, di tutti coloro sulla cui pelle si nutre la nostra sopravvivenza: egli è innanzitutto un uomo concreto, l’incontro è tra due libertà in carne ed ossa. Che egli non sia semplicemente uno stereotipo lo si vede dalle tonalità emotivamente cariche del brano di vangelo che parla di lui: «Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”».

Eppure, egli è intrinsecamente anche portatore di un valore simbolico: certo esso non deve diminuirne la caratura personale, ma il decidersi di Gesù di fronte a quest’uomo non è una scelta contingente, è la scelta di un modo di essere, di una logica da sposare, di una prospettiva da fare propria. Gesù di fronte a questo lebbroso – dunque decidendosi praticamente in una situazione concreta – sceglie però chi essere (e dunque chi non essere): decide di non dar credito alla logica che stava sotto all’emarginazione di quest’uomo, decide di non poggiare la sua vita sulla priorità della propria salvezza, decide che il mors tua vita mea non può essere la risposta adeguata per la vita dell’uomo e di Dio.

È questo il dramma per chiunque sceglie di seguire quest’uomo (e questo Dio): perché tutte le nostre viscere si contorcono di fronte a questa prospettiva; nessuno vuole morire; ci fa una paura tremenda. E se anche riflessivamente riusciamo a dirgli un sì, continuamente ci rispunta il bisogno di “salvarci la vita” (in modo radicale nel fisico, ma quotidianamente nel bisogno di non sfigurare, di avere ragione, di essere al centro dell’attenzione, di essere amati in modo speciale, ecc…).

Al di là però della fatica di tutta una vita (dunque anche con l’incapacità a volte) di sposare fino in fondo questa logica, ciò che mi pare importante è arrivare a cogliere che questa è la radicalità della proposta cristiana. È a questa profondità del nostro essere che ci si deve convertire, che ci si deve lasciar ribaltare. È dentro a queste strutture antropologiche decisive che ci si deve mettere in discussione. Tutto il resto è coreografia: è religione e non fede, che farà tanto bene al quieto vivere, ma non cambia niente e soprattutto non cambia noi. Come di fatto abitualmente accade: con un cristianesimo che sempre più rischia di diventare semplicemente religione di stato o peggio religione in cui si reintroduce – senza neanche accorgersene – il principio di Caifa: l’opposto di quello di Gesù. Troppo spesso infatti il mors mea vita tua, ha dimenticato il secondo stico della frase, limitandosi al mors mea. La prospettiva di Gesù è stata perciò annacquata e slavata in una banale mortificazione personale: essa, avendo perso lo scopo del vita tua è diventata una mors mea vita mea, cioè una mortificazione presente per un premio futuro, una non-vita attuale (morte) per “guadagnarsi il paradiso”, come dicevano le nostre nonne… Ma questo è forse più aberrante del mors tua vita mea, perché non salvaguarda niente né l’altro né me…

Per Gesù invece è sempre chiarissimo il vita tua, l’esserci, il decidersi – addirittura il morire – “per l’altro”. E anche in questo ci viene incontro il brano del vangelo di Marco: «Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». Gesù non resiste alla richiesta di aiuto di quest’uomo, una richiesta che avrebbe tanto da insegnarci riguardo alla sua trasparenza… quella che solo la disperazione sa dare…

Gesù si commuove: non riesce a rimanere fedele alla logica del suo popolo, alla logica delle Sacre Scritture che gli chiedevano di vedere in quell’uomo solo un “immondo” e non un uomo, appunto. Uno da tenere fuori, uno da sacrificare per il bene del popolo. Gesù invece non riesce a non sentirlo “suo”, uno dei “suoi”. Non riesce cioè a non far scattare in se stesso la dinamica della com-passione, della con-naturalità, della co-umanità: non può non vedere uno da amare in quel corpo deturpato che lo supplica di aiutarlo.

Interessante però che quasi immediatamente sembra riaversi da questo trasporto e addirittura – dice il testo – «ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”».

Perché questa brusca reazione? «Perché sapeva che manifestare il Regno di Dio con potenza ha in sé una grossa ambiguità: la gente infatti rischia di cogliere la potenza e non il messaggio che c’è dentro. […] Per noi infatti il metro di giudizio con cui misuriamo tutte le cose è il potere […] e Gesù si scontra contro questo pregiudizio dell’uomo: sa che questo fa deviare ogni tentativo, ogni parola che lui dice; perché noi la interpretiamo a nostro modo. Il vero problema è che però la fede proposta da Gesù è il superamento del Dio del potere, del Dio onnipotente. È come se Gesù, proprio dentro il miracolo, domandasse alla gente: “Credi che è onnipotente l’amore e non il potere?”» [p.Giuliano Bettati, in Con Marco in cammino verso il Regno]. Ecco il perché della sua brusca reazione: perché mentre lui sta distruggendo la logica del mors tua vita mea non vuole essere frainteso: non vuole essere letto – nella potenza del miracolo – con quella logica lì, come se lui facesse i miracoli per dimostrare di essere Figlio di Dio, per imporsi come Dio agli uomini. Il suo desiderio è invece che sia chiara la proposta radicale che sta facendo a chi lo vuol seguire: dirà infatti più avanti «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà».

L’unica domanda che resta aperta, l’unico mio dubbio è: ammesso e non concesso di dire sì a questa proposta del Signore… essere cioè disposti a perdere la propria vita… si può anche accettare di farla perdere ai nostri? Accogliere il “lebbroso” vuol dire infatti mettere a rischio non solo me, ma anche i miei figli, i miei fratelli, i miei amici, ecc…

Forse l’unica superabilità di questo dubbio è che ognuno vada pensato come “nostro”, soprattutto se lebbroso…

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