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venerdì 13 marzo 2009

Il vero culto è l'incontro con Gesù risorto

La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, che la liturgia ci propone per questa terza domenica di Quaresima, propone il cosiddetto decalogo, ossia i dieci comandamenti che Mosè ricevette da Dio sul Sinai. È un testo molto noto e i cui commenti si sprecano. Più interessante è forse allora cercare di cogliere il senso del suo abbinamento al Vangelo di Giovanni (2,13-25), in cui è narrata l’altrettanto famosa scacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù.
Dato che entrambi i brani contengono chiari riferimenti al culto – «Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai», Es 20,3-5; «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”» – è lì che va concentrata la nostra attenzione.In proposito, bisogna intendersi bene su cosa significhi, biblicamente parlando, il termine “culto”; e il miglior modo per farlo è lasciar parlare i testi. In particolare il libro dell’Esodo, nei versetti costituenti la prima lettura, sottolinea come l’unico vero atto di culto sia quello riservato all’unico vero Dio. Anzi, più precisamente l’atto di culto sembra identificarsi con il non fare di nient’altro, Dio. Il culto vero quindi corrisponde coll’avere/ritenere Dio unicamente il Signore, colui cioè che ha condotto fuori dal paese d’Egitto – dalla schiavitù – il popolo di Israele.
Questa annotazione storica («Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile») non è stilistica o marginale; anzi, racchiude il senso stesso di tutto quanto segue: proprio perché c’è una storia di salvezza, una vicenda di liberazione, una relazione di custodia, Dio è il Dio del popolo. Solo per questo ha senso un culto: esso non è mai inteso come una mera pratica vuota, una ripetizione di gesti o parole magiche – che funzionano senza adesione del cuore; non è mai nemmeno un tentativo di ingraziarsi o imbonirsi la divinità. Molto di più, il culto è l’esplicitazione gestuale, vocale e rituale di quella relazione originaria che fonda la vita: proprio perché Dio è Colui che ha condotto fuori dall’Egitto il popolo, proprio perché cioè Dio è Colui col quale c’è una storia di reciproco disvelamento e affidamento, sono necessarie le mediazioni simboliche (culto) che permettono la relazione.
Ecco perché l’idolatria è considerata il peccato più grave del popolo: essa non è, come a volte capita di pensare a noi occidentali, una forma scaramantica nei confronti di statuette di poco conto, ma la scelta di fondare la propria vita su ciò che fondatezza non ha, su ciò che – anche linguisticamente – evoca l’inconsistenza, l’evanescenza, l’insignificanza («Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!», Sal 115).
Il libro dell’Esodo ribadisce dunque l’unicità della relazione d’alleanza («io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo», Ger 7,23; 11,4; 30,22; Ez 36,28) e la necessità di un’autentica mediazione simbolica che la custodisca e la alimenti.
Anche il vangelo focalizza la sua attenzione in questo senso. Solo che in esso la questione sembra allargarsi, o meglio approfondirsi: la problematica infatti sembra essere quella rimandata dalla situazione per cui anche il culto codificato è diventato idolatrico.
Non si tratta certo di una tematica sconosciuta al Primo Testamento (basti pensare a cosa dice Isaia di sacerdoti e profeti al capitolo 28,7: «Sacerdoti e profeti barcollano per la bevanda inebriante, sono annebbiati dal vino; vacillano per le bevande inebrianti, s’ingannano mentre hanno visioni, traballano quando fanno da giudici»; o al capitolo 30,9-11: «Questo è un popolo ribelle. Sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”»; o Geremia, al capitolo 2,7-8: «Io vi ho condotti in una terra che è un giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti, ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso una vergogna la mia eredità. Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano»), ma che certamente nella risposta di Gesù trova un’evoluzione sorprendente e scandalosa.
Gesù infatti compie un gesto fortissimo («Fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”»), ma in modo più radicale ancora usa parole di spiegazione sconcertanti.
Infatti, alla richiesta di spiegazione dei Giudei – che in questo versetto 18 del capitolo 2 si oppongono per la prima volta a Gesù, ma d’ora in poi diventeranno i suoi oppositori abituali e che qui indicano sicuramente i custodi del tempio – («Quale segno ci mostri per fare queste cose?»), risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Alla domanda, cioè, sulla sua εξουσία (exusìa), sull’autorità con cui compie il gesto simbolico della purificazione del tempio, Gesù risponde rimandando al suo corpo. Questo è evidentissimo, oltre che dall’esplicitazione «egli parlava del tempio del suo corpo», anche dal verbo εγειρω (egheiro), risorgere.
Al di là dunque dell’incomprensione contingente – i Giudei credono che Gesù parli del tempio di Gerusalemme – la rilettura dell’episodio da parte dell’evangelista, non lascia dubbi: il vero culto è quello della relazione personale con Gesù risorto. Ogni ordine simbolico che perde di vista questa centralità, seppur codificato istituzionalmente, è idolatrico. Ecco perché egli può dire alla Samaritana: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,21.23-24).Questo è dunque l’unico vero culto cristiano (e in proposito non mi dilungo sulle ripercussioni che questo dovrebbe avere anche su un’analisi critica della situazione ecclesiale odierna, rimandandola al percorso personale di ciascuno); culto cristiano autentico che – sorprendentemente – ha colto in maniera lucidissima Etty Hillesum, una Donna, che cristiana non era. Ma anche in questo caso è meglio far parlare i testi: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo»; «Mio Dio prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo ‘amore’. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti»; «Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro. […] Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più. Probabilmente è di lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s’inaridisce per l’amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stian veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche. Mi chiedo che cosa fare effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e di corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il mio rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno. Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo di cui so già che mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire già adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui. Tra qualche giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei denti bucati: sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi porterò una Bibbia e in qualche angolino dello zaino, il mio libro preferito. Non mi porterò ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me. Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti. Spesso saranno congiunte in una preghiera e mi proteggeranno; e staranno con me fino alla fine. E così questi occhi scuri col loro sguardo buono dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivi, allora tutta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi. Naturalmente si tratta di un semplice stato d’animo, uno dei tanti che si provano in queste nuove circostanze. Ma è anche un pezzo di me stessa, una possibilità che ho. Una parte di me che sta prendendo sempre più il sopravvento. Del resto: un essere umano è poi solo un essere umano. Già ora abituo il mio cuore ad andare avanti, anche quando sarò separata da coloro senza cui non credo che potrei vivere. Il mio distacco esteriore aumenta di giorno in giorno per far posto a un sentimento interiore – la volontà di continuare a vivere e a sentirsi legati per quanto lontani si possa essere uno dall’altro. […] La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di trovarci ancora su questa terra. […] In questa nuova situazione dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi. Molte persone mi rimproverano per la mia indifferenza e passività e dicono che mi arrendo così, senza combattere. Dicono che chiunque possa sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo, che questo è un dovere, che devo fare qualcosa per me. Ma questa somma non torna. In questo momento, ognuno si dà da fare per salvare se stesso: ma un certo numero di persone – un numero persino molto alto – non deve partire comunque? Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questa è poca cosa, se paragonata a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente. Può anche darsi che io sottovaluti tutto quanto. Ogni giorno vivo nell’eventualità che la dura sorte toccata a molti, a troppi, tocchi anche alla mia piccola persona, da un momento all’altro. Mi rendo conto di tutto fin nei minimi dettagli, credo che nel mio ‘confrontarmi’ interiore con le cose io stia saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura. E la mia accettazione non è rassegnazione, o mancanza di volontà: c’è ancora spazio per l’elementare sdegno morale contro un regime che tratta così gli esseri umani. Ma le cose che ci accadono sono troppo grandi, troppo diaboliche perché si possa reagire con un rancore e con un’amarezza personali. Spesso la gente si agita quando dico: non fa poi molta differenza se tocca partire a me o a un altro, ciò che conta è che migliaia di persone debbano partire. Non è neppure che io voglia correre in braccio alla mia morte con un sorriso rassegnato. È il senso dell’ineluttabile e la sua accettazione, la coscienza che in ultima istanza non ci possono togliere nulla. Non è che io voglia partire ad ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare lo posso dare comunque, che sia qui in una piccola cerchia di amici, o altrove, in un campo di concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un “destino di massa”. […] Il valore della mia persona risulterà da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione»; «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. […] Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto solo le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me»; «Bisogna che cerchi quelle due o tre frasi che avevo già trascritto da una lettera di Rathenau. Ecco cosa mi mancherà: qui basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che abbia tutto in me stessa. Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera».

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