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martedì 31 luglio 2012

Oltre la solitudine

Cristo partecipa alla solitudine che l'uomo si costruisce
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,1-15)

Prima di commentare questo vangelo, vorrei invitarvi a leggere alcuni articoli sulla cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Londra. Tutti ottusamente entusiastici!
Che c’entrano i giochi con il vangelo? c’entrano, c’entrano. Intanto al di là che la “cerimonia” possa essere piaciuta o no, va dato atto al “regista” di essere riuscito a dare una immagine efficace quanto sintetica del tipo di storia che l’Inghilterra e quindi l’Occidente nel suo insieme hanno costruito. Poi bisogna dire che la “storia” che così viene sbandierata è proprio quella mostruosità antropologica che il vangelo sottopone a un giudizio di condanna inappellabile e per questo invita a stravolgere verso un orizzonte nuovo.

Vediamo quindi a grandi linee la sintesi storica dell’Inghilterra-Occidente propinataci:
Inizia con scene bucoliche del periodo agricolo: scene semplici, di gente semplice… di un modo per certi versi definitivamente perduto, ma non per questo ricco di insegnamenti anche oggi. Nell’epoca agricola la gente lavorava e viveva del proprio lavoro… Se non ci fossero stati i regnanti avidi e dittatori che li sfruttavano si potrebbe dire che quella gente, pur non vivendo negli agi, era gente felice e per niente povera? Per rispondere a questa domanda occorrerebbe domandarsi che cosa vuol dire “felice” e “povero” per noi. Che idea abbiamo di povertà? È povero colui che per vivere deve lavorare? È povero chi non può permettersi una vacanza ai tropici, un iPod, una serata in discoteca…? E chi è il ricco? Colui che finalmente può spendere senza lavorare e comprarsi tutto ciò che desidera?... Ma questa idea di povero e ricco sono reali o indotte? E indotte da cosa, da chi? E ancora, può un povero essere felice? Le Beatitudini (beati i poveri) rimandano a un’utopia o invitano a un cambiamento del presente? Domande che esigono una nostra risposta che non può che manifestarsi all’interno di un itinerario di conversione culturale, prima ancora che morale e teologica.

Ad esempio, sempre nella cerimonia di inaugurazione, chi ha colto che se la regina d’Inghilterra, discendente di questi affamatori di popolo, partecipa a una scenetta dai più (anche dall’Osservatore Romano!) giudicata ironica, in realtà siamo davanti all’apoteosi arrogante di un potere che si fa beffe del popolo? Ogni (auto)ironia del potere, non fa che accentuare l’arroganza del potere! È per questo che quella scena non era semplicemente di cattivo gusto, ma io l’ho percepita come uno schiaffo all’intelligenza e alla dignità umana di milioni di lavoratori uomini e donne che sono schiacciati dalle esigenze produttive disumanizzanti di un sistema che la regina presiede: Cominci non tanto a prendere il salario di un operaio inglese, ma a viverne le condizioni lavorative… e poi ne riparliamo!

Il povero infatti non è un prodotto della natura, il povero è un prodotto della società (Balducci).
La rivoluzione industriale che segue (scena successiva, “delle ciminiere”) è ciò che ha reso possibile fare della povertà di molti un elemento essenziale alla produzione del benessere di pochi. Il povero è la componente chiave della macchina produttiva tecnologico-industriale: solo lui poteva accettare di far parte di una catena di montaggio ieri, e approvare i piani industriali alla Marchionne oggi! Abolendo cinquemila anni di storia biblica che aveva inventato lo “Shabbat”: il tempo in cui l’uomo nel sano riposo era obbligato (non era un optional!) a dedicarsi a coltivare le proprie radici, la propria produttività interiore… Si sa come andò a finire, abbiamo dapprima interpretato l’obbligo come un precetto per sostituirlo via, via con la movida (forma industriale del tempo fuori dalla “fabbrica”)… L’importante era non “coltivarsi” veramente! L’Impero finanziario ringrazia!

Al povero, schiavo di ieri e di oggi, lo stesso sistema produttivo propone allora due strade per fuggire dall’oppressione e soddisfare la sua sete di libertà: la favola (scena in omaggio a Mary Poppins, ma potremmo aggiungere Hollywood e il divismo in genere tra cui James Bond e la stessa famiglia reale) e l’assistenzialismo (omaggio all’efficientissimo servizio sanitario nazionale inglese, ma potremmo aggiungere le trasmissioni di raccolta di fondi tipo Telethon, la filantropia dei ricchi alla Bill Gates…).
Il primo dà l’illusione della libertà, il secondo della moralità… Entrambi però non si pongono le ragioni del fallimento della storia di miliardi di essere umani. Entrambi sono fuga consolatoria e funzionale al sistema produttivo “economico” e all’invenzione tecnica (bicicletta e web non a caso celebrati). Rivoluzioni che non mettono in discussione il meccanismo che genera poveri ma ne moltiplicano le potenzialità di riuscita (per pochissimi) e di fallimento (per la quasi totalità).
Ecco ben descritto l’orribile e falso destino dell’uomo: la fuga dalla alienazione nell’illusione fiabesca e la finale consolazione di essere accompagnati con un dolce sorriso a una morte “tecnologicamente” programmata, pianificata nel processo produttivo: anche la malattia e la morte diventano un numero da mettere in bilancio.

Se questa è l’alternativa all’umana disperazione, una inaugurazione siffatta mi è necessariamente apparsa, orripilante, nauseante nella comunicazione descrittiva di un vuoto totale. C’è ben poco da esaltarsi e da inneggiare in questo Occidente: c’è l’entropia del nulla storico di un mondo che si illude di essere portatore di valori. È stata, senza alcun esame di coscienza – lo humor lo sostituisce – la celebrazione del vuoto che abbiamo costruito: l’uomo in sé non è in grado di far altro che costruire ciminiere assassine che sputano fumo… a Liverpool come ad Auschwitz!

Tutto questo, vi sembrerà incredibile, è magistralmente descritto nella “storia” che il vangelo ci riporta, purché non ci si fermi al mero dato storiografico, ma si cerchi di decifrarne le dinamiche.

Davanti alla fame (un tema caro al vangelo: notate che non si parla qui di sete, eppure dovevano ben averne!) abbiamo il miracolo della “fiaba” consolatoria della moltiplicazione dei pani e dei pesci: Finalmente il “principe azzurro” arriva e sfama il popolo con l’apoteosi della bacchetta magica di una Mary Poppins al maschile. Finalmente un dio, consolatore e gratificante nel suo processo assistenziale: un Gesù-Caritas che non ha bisogno di mettere in discussione le cause della “fame”. La “fuga” di Gesù è la descrizione di quello che all’uomo resta – all’occidente resta – e per chi ha assistito alla cerimonia inaugurale dei giochi, ha percepito: il vuoto del nulla di una storia fondata sul progresso del nulla. In attesa di come riuscire a sfamare le fami presenti e future!
Il vangelo non è un libro di filosofia, occorre decifrare il messaggio dalla storia. Quello che il vangelo ci sta dicendo è nella storia che sta raccontando. Non è Gesù che fugge, il Verbo di Dio che si è fatto uomo non può abbandonare l’uomo. Non si può fondare una teologia della “fuga” su un racconto del genere, sarebbe in contraddizione con tutta la logica evangelica e biblica: che senso ha un Dio che si incarna per isolarsi? Quello che si vuole dire in modo descrittivo è che quando l’uomo entra nella logica del calcolo (la stessa logica di Filippo! Che è la logica che ha generato quel tipo di rivoluzione tecnologico-industriale e finanziaria di cui ci vantiamo!) la soluzione dei suoi problemi genera il vuoto del senso di sé: è l’uomo che resta solo. La solitudine di Gesù, uomo, è partecipazione crocifissa a questa solitudine dell’uomo: Quando l’uomo si accosta alla radice del proprio esistere (Dio) con quella logica quantitativa, fallisce l’incontro con sé e con Dio, e non gli restano che i crampi allo stomaco. Il miracolo eucaristico della moltiplicazione dei pani e dei pesci è miracolo perché è eucaristico, cioè partecipa a quella dimensione della vita che si chiama gratitudine e che è estranea ad ogni logica di “calcolo”. Non c’è “grazie” in economia: se “paghi due e compri tre” è per farti pagare e comprare anche il “tre”, con l’illusione della fiaba dello sconto-regalo.

Il vangelo ci dice che se l’uomo vuole uscire dalle proprie prigioni, non ci riuscirà né con la fiaba del profeta dispensatore, né con la carità assistenziale di un dio crocerossina. Potrà farlo solo se riuscirà a costruire un barlume di società dove l’altro non è un “elemento del processo produttivo del proprio benessere” ma un “compagno di viaggio della comune avventura”.

Non ci fu “rivoluzione industriale” ma “involuzione industriale”, chi raccoglierà la sfida di una vera rivoluzione evangelica?

venerdì 27 luglio 2012

XVII Domenica del Tempo Ordinario - Gv 6 (I)


Dal secondo libro dei Re (2Re 4,42-44)

In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.



Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 4,1-6)

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.



Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,1-15)

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.



Con questa Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario, la Liturgia lascia la narrazione di Marco per aprire un ciclo di 5 settimane in cui ci viene proposto quasi per intero il sesto capitolo del vangelo di Giovanni.

La narrazione del miracolo della moltiplicazione dei pani, diventa lo spunto per l’evangelista per intessere un lungo discorso eucaristico su Gesù pane di vita, discorso che “sostituisce” la narrazione dell’ultima cena che in Giovanni manca (al suo posto è infatti narrata la lavanda dei piedi).

Di domenica in domenica, cercheremo quindi di metterci in ascolto di questa proposta giovannea, per tentare di intercettare le numerosissime tematiche che offre.

Oggi si tratta di focalizzarsi sull’incipit e sull’occasione (il fatto!) che ingenera questo lungo discorrere dell’evangelista: la moltiplicazione dei pani (narrata ben sei volte nel Nuovo Testamento!).


Siamo al capitolo sesto – dicevamo – e visto che ultimamente siamo stati polarizzati da Marco, val forse la pena ricordare per un momento come il Quarto Vangelo (QV) abbia organizzato il materiale che aveva a disposizione. Giovanni sostanzialmente divide il suo vangelo in due parti (Gv 1,1-12,50 e Gv 13,1-21,25): la seconda tratta degli ultimi giorni della vita di Gesù, a partire dall’ultima sera trascorsa coi suoi, fino alla narrazione della sua passione-morte-risurrezione; mentre la prima – quella che più direttamente ci interessa oggi – narra del suo ministero pubblico… anche se in una modalità inedita rispetto ai sinottici.

Il QV, infatti, dopo il famoso prologo poetico («In principio era il Verbo…»), inizia con la narrazione della cosiddetta “settimana inaugurale”; una serie, cioè, di eventi, che l’evangelista organizza nello spazio di una settimana: la presentazione della figura del Battista (Gv 1,19-28), la sua testimonianza (Gv 1,29-34), il successo della sua testimonianza con i primi discepoli che vanno a vedere dove dimora Gesù (Gv 1,35-42), il diffondersi – come un passa parola – dell’incontro con Gesù fra i nuovi discepoli (Gv 1,43-51) e – infine – il primo segno, a Cana di Galilea (Gv 2,1-12). Segue poi la prima salita di Gesù a Gerusalemme (“salite” che scandiscono l’ordito narrativo), dove accade l’episodio della cacciata dei venditori e dei cambiavalute dal Tempio, con il primo battibecco coi Giudei. Questa vicenda diventa l’occasione per un fariseo, Nicodemo, di intessere con Gesù un lungo discorso sulla necessità di rinascere dall’alto (cap. 3).

Rientrando poi in Galilea, Gesù passa dalla Samaria, e anche lì si intrattiene in uno dei dialoghi più significativi di tutto il NT, quello con la donna samaritana, sull’acqua viva che zampilla per l’eternità (cap. 4). Prima dell’inizio del quinto capitolo, è narrato un nuovo “segno” di Gesù a Cana di Galilea: la guarigione del figlio di un funzionario reale.

Infine – al capitolo 5 – viene narrata la seconda salita di Gesù a Gerusalemme, dov’egli guarisce l’infermo della piscina di Betzaetà, che diventa l’occasione per una nuova disputa con i Giudei, perché questa liberazione dal male, avviene in giorno di sabato.

È alla fine del lungo discorso che Gesù fa ai Giudei, che inizia il nostro capitolo 6, con l’annotazione geografica che ci informa come Gesù sia frattanto tornato in Galilea. È lì – sull’«altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade», che si svolge la vicenda: «Lo seguiva una grande folla»… «perché vedeva i segni che compiva sugli infermi».

C’è tanta gente, dunque, intorno a Gesù… e in qualche modo questo “tira su il morale”: in tanti lo seguono! Ma immediatamente Giovanni annota, che la motivazione del loro andargli dietro era legata ai “segni che compiva”.

Non lo dico in maniera sprezzante, tutti si incamminano dietro a lui, perché intuiscono in ciò che dice e in ciò che fa, che il personaggio è interessante: anche noi abbiamo fatto (e forse spesso ancora torniamo a fare) così!

Lo dico, per sottolineare come l’atmosfera sia quella di un grande entusiasmo, che però ha qualcosa di effimero, che lascia come un sapore amaro: non è un quadro – questo iniziale – di totale lucentezza e limpidità. E Gesù lo sa: lo sa meglio di tutti e – come vedremo settimana prossima – avrà qualcosa da dire in proposito.

Eppure, dentro a quest’atmosfera dove il chiaro e lo scuro si rincorrono, il passo che Gesù muove è quello della compassione: «Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”»… In queste parole riecheggiano infatti quelle di settimana scorsa, quando Gesù alzando gli occhi sulla folla «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».

È uno dei tratti più belli della personalità di Gesù (e quindi del volto del Padre), quello cioè per cui, di fronte alla mai piena lucentezza dell’uomo (noi tutti siamo quei perenni ambigui uomini opachi), Lui si china, ci nutre, si mette a insegnarci tante cose… Non si arrabbia, non chiede una preventivo livello di adeguatezza, un certificato che garantisca la nostra fedeltà… Sa che ce ne andremo tutti, prima o poi, ma – proprio come col giovane ricco – comunque ci fissa e ci ama.

Nel contesto di Giovanni 6, questo lineamento del suo essere, si esplicita nel desiderio di nutrire questa processione di sperduti (come è ogni generazione che passa su questa terra). Ma i pani sono pochi, non c’è dove comprarli… arriva un ragazzino, ha qualcosa, 5 pani d’orzo e 2 pesci… MA CHE COS’È QUESTO PER TANTA GENTE?



Il prof. Pierangelo Sequeri ha scritto un libro (che consiglio a tutti!) con questo titolo. Si tratta di un tentativo di raccontare i sacramenti cristiani. Il significativo sottotitolo recita infatti: Itinerario rieducativo al sacramento cristiano

E quando deve parlare della comunione, mette all’inizio proprio il nostro brano di vangelo, e poi scrive:

«Tu che porti nella celebrazione comune? Il Signore Gesù è in grado di far diventare cibo per un’immensa folla pochi spiccioli di pane e di pesce. Ma la bellezza del segno è che egli non moltiplica propriamente il cibo, bensìla disponibilità di alcuni a prendersi cura della fame degli altri. Della fame altrui, capisci? Qualcuno deve sporgersi oltre la propria fame, affinché tutti siano saziati. I discepoli sono quelli che celebrano, nell’eucaristia, la loro disponibilità a sporgersi, nella vita, oltre la propria fame. E questo deve apparire nella celebrazione dell’eucaristia.

[…] L’eucaristia è il buon pane che ci nutre. È il pane spezzato che ci dà la grazia di riuscire a sporgere ben oltre la nostra vita in favore della vita altrui. Ha bisogno del nostro desiderio di stare con il Signore e di mangiare la Pasqua con Lui, per imparare a vivere per Lui. E a morire per altri. Sarà sempre poco quello che noi portiamo all’eucaristia. E sempre distratti ci ritroveremo, lì, nell’ascolto della parola. Ma se desideriamo ascoltare anche per altri, la parola arriverà pure a noi. Se desideriamo che altri abbiano cibo, noi stessi verremo abbondantemente nutriti.

[…] Basterebbero un pesciolino e un pezzettino di pane che noi avessimo portato per altri, e già il rito sarebbe stato diverso e rifocillante per molti. E ne avanzerebbe. Quando noi invece diamo la sensazione di resistere eroicamente davanti al Signore, per avere il diritto di occuparci d’altro, dobbiamo domandarci: qualcuno di noi aveva portato un pesciolino?

Perché se non c’era nulla da moltiplicare per altri, anche il nostro pesciolino resiste poco. E dopo mezz’ora già puzza, e noi stessi non ne possiamo più mangiare. Così il pane spezzato rimane da solo: come la prima volta, quando il Signore va in croce da solo e i suoi discepoli se la squagliano. E si domandano, pur con affettuosa nostalgia del Signore e apprezzamento sincero di Lui, “che cosa ci è rimasto?”.

Succede anche a noi. È necessario che meditiamo con molta umiltà e con molto amore sulla desolazione dell’eucaristia che non diventa né cammino né sosta con il Signore. La placida rassegnazione che spesso contraddistingue questa liturgia non ci commuove abbastanza. La futile ilarità che la precede e la segue non promette nulla di buono per la prossima volta.

Non è neppure necessario che tuttiabbiano le sporte piene di pani e di pesci. Basterebbe qualcuno. E sarebbe necessario che qualcuno di coloro che vigilano affinché tutto rimanga esattamente così come sta (ci sono “commissioni liturgiche” che ne fanno un punto d’onore) si lasciasse riscaldare dal cuore della parola del Signore che spiega la necessità della sua morte commentando le scritture, e si lasciasse commuovere dalla tenerezza di Gesù che pensa a non lasciare senza nutrimento nessuno di coloro che ascoltano la sua parola. Basterebbe questo e, come d’incanto, tutti si troverebbero con un buon pane in mano: anche molti che vengono alla messa senza sapere bene perché. E ne uscirebbero con la sensazione di aver ricevuto, magari per la prima volta nella loro vita, non un “esorcismo” ma un buon “nutrimento”. Se non accade, è sicuro che non c’era nessuno, disposto a mettere a disposizione degli altri neppure due miserabili pesciolini».

mercoledì 18 luglio 2012

XVI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Geremìa (Ger 23,1-6)

Dice il Signore: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia».



Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 2,13-18)

Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.



Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6,30-34)

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.



In questa Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario, le letture che la Chiesa ci propone, insistono sulla mancanza o sull’inadeguatezza dei pastori.

Le parole del libro di Geremia, in proposito, sono molto dure («Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati»), ma anche l’implicito giudizio di Gesù sui “pastori” del suo tempo non è meno amaro: «vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore».

In più, leggendo questi testi, sembra di sentire quasi la triste sensazione, che nulla sia cambiato…

Molti di noi oggi, a livello personale ed ecclesiale, si sentono “pecore senza pastore”, se non addirittura “gregge disperso, scacciato, dimenticato”, con la vertigine di chi si ritrova esposto alla vita, senza una voce autorevole e normativa (presso il proprio cuore) che indichi la giustezza di una via, che mostri come incamminarsi sui sentieri interrotti delle nostre vite, che rassicuri, semplicemente, essendoci.


Ci ritroviamo dispersi, spesso avventurati su itinerari in solitaria, a brindare come don Primo Mazzolari davanti ad uno specchio, dicendo “Però abbiamo ragione noi!”… ma affaticati dal dover ritrovare sempre da noi stessi le ragioni del nostro andare, credere e sperare… stanchi delle insinuazioni, botte e calunnie con cui i sedicenti “pastori” coi loro pecoroni si fanno forti… delusi da noi stessi, per le troppe volte che abbiamo pensato che “andare a fare altro” forse era meglio perché vivere all’incrocio dei venti ti fa bruciare vivo – come canta De Gregori in una delle sue più belle canzoni, Santa Lucia, che vi riporto integralmente sotto.

E allora val la pena tornare – ancora una volta – al vangelo, dove Gesù – registrando il perverso meccanismo di ogni forma di potere, anche religioso – si propone come unico pastore (“Io sono il buon pastore”), invitando tutti noi, suoi sbrindellati innamorati, a non chiamarci tra di noi maestro, padre, guida («Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo». Mt 23,8-10), ma a rimetterci dietro a lui, a lui che commosso dai nostri sbandamenti, torna a “insegnarci molte cose”… in primis quel suo vangelo, quella sua buona notizia per cui abbiamo un Padre che soli non ci lascia mai, neanche quando siamo soli…

È di lui che Gesù invita a fidarci, è su di lui che ci invita a fondarci, è in lui che ci invita ad arroccarci.

Come scrive infatti J. A. Pagola nel suo Gesù. Un approccio storico, «L’esperienza di Dio è stata centrale e decisiva nella vita di Gesù. Il profeta itinerante del regno, colui che curava gli ammalati e difendeva i poveri, il poeta della misericordia e il maestro dell’amore, il creatore di un movimento nuovo al servizio del regno di Dio, non è un uomo dissipato, attratto da interessi diversi, bensì una persona profondamente unificata intorno al nucleo di un’esperienza: Dio, Padre di tutti. È lui a ispirare il suo messaggio, a unificare la sua intensa attività e a polarizzare le sue energie. Dio è al centro di una tale vita. […] Ma qual è l’esperienza che Gesù ha di Dio? Chi è Dio per lui? Come si colloca davanti al suo mistero? Come lo ascolta e si affida alla sua bontà? Come lo vive? Rispondere a queste domande non è facile. Sulla sua vita interiore, Gesù si mostra molto discreto. Tuttavia parla ed agisce in maniera tale che le sue parole e le sue azioni ci permettono di intravedere in qualche modo la sua esperienza.

Qualcosa si avverte immediatamente; Gesù non propone una dottrina su Dio; non lo si vede mai mentre spiega la propria idea di Dio. Per Gesù, Dio non è una teoria; è un’esperienza che lo trasforma e lo fa vivere alla ricerca di una vita più degna, amabile e felice per tutti. Egli non pretende mai di sostituire la dottrina tradizionale su Dio con un’altra nuova. Il suo Dio è il Dio di Israele. […] Nessun gruppo giudaico discute con Gesù sulla bontà di Dio, la sua vicinanza o la sua azione liberatrice; tutti credono nello stesso Dio.

La differenza sta nel fatto che i dirigenti religiosi di quel popolo associano Dio con il loro sistema religioso, non tanto con la felicità della vita della gente. Per loro, la prima e più importante cosa è rendere gloria a Dio osservando la legge, rispettando il sabato e assicurando il culto del tempio. Al contrario, Gesù associa Dio con la vita: la prima e più importante cosa per lui è che i figli e le figlie di Dio godano della vita in maniera giusta e degna. I gruppi più religiosi si sentono spinti da Dio a curare la religione del tempio e l’adempimento della legge; Gesù, al contrario, si sente mandato a promuovere la giustizia di Dio e la sua misericordia.

Se Gesù sorprende, non è perché espone nuove dottrine su Dio, bensì perché lo coinvolge in maniera diversa. Non critica l’idea di Dio che viene trasmessa in Israele, ma si ribella contro gli effetti disumanizzanti prodotti da quella religione così com’è organizzata. A scandalizzare è soprattutto il fatto che Gesù non esita a invocare Dio per condannare o trasgredire la religione che lo rappresenta ufficialmente, ogni volta che essa si trasforma in oppressione e non in principio di vita», pp. 339-340.

È a questo Dio, unilateralmente ed inequivocabilmente amico dell’uomo, che Gesù ci invita a riferirci, lui che – unico pastore – si è fatto agnello con noi e per noi, per farci vedere cosa vuol dire essere figli di questo Padre.

Unici pastori, allora, ammessi nella comunità dei credenti, dovrebbero essere quelli che ti conducono al gregge e che ti mostrano come anch’essi non sono che pecore, come te; quelli cioè capaci di convertire ogni rapporto – che magari per contingenze storico-culturali nasce verticale – a orizzontalità, a fraternità, a inclusività.

Altrimenti rischiamo, con la prassi, le strutture, i compromessi, di annunciare un altro vangelo…



Per questo mi piace concludere con una preghiera laica che fa dell’empatia, cioè del «sentire e comprendere l’altro, cioè entrare in vibrazione “nel proprio interno”, con ciò che la gente sente dentro di sé» [Giuliano] la chiave della vita fraterna. Ciò di cui – forse – i nostri “pastori” dovrebbero attrezzarsi un po’ di più…



Santa Lucia, per tutti quelli che hanno gli occhi

e un cuore che non basta agli occhi

e per la tranquillità di chi va per mare

e per ogni lacrima sul tuo vestito,

per chi non ha capito.



Santa Lucia per chi beve di notte

e di notte muore e di notte legge

e cade sul suo ultimo metro,

per gli amici che vanno e ritornano indietro

e hanno perduto l'anima e le ali.



Per chi vive all'incrocio dei venti

ed è bruciato vivo,

per le persone facili che non hanno dubbi mai,

per la nostra corona di stelle e di spine,

per la nostra paura del buio e della fantasia.



Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata

e un ragazzino al secondo piano che canta,

ride e stona perché vada lontano,

fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe,

anche la solitudine.

  

martedì 10 luglio 2012

XV Domenica del Tempo ordinario


«Quando si parla di evangelizzazione, il nostro pensiero corre subito al «che cosa vado a dire?» e meno, molto meno, a «come devo essere io?», al mio stile di vita. Perché lo stile di vita non è un accessorio, magari desiderabile, ma secondario, del messaggero. Le modalità del presentarsi dei messaggeri missionari, cioè gli strumenti economici, il tessuto di relazioni nelle quali si inseriscono, le strutture istituzionali con le quali si incontrano, o si scontrano, nei paesi e nelle città dove arrivano, anche se ancora minime, come in questi inizi… sono già il messaggio!», [Giuliano].


In questa Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario è su questo che vorrei riflettere… su quanto poco conto, nel nostro pensare la nostra vita, spesso abbia il “come devo / voglio essere io”, “come dobbiamo / vogliamo essere noi” e su quanto invece questo sia il tutto di ciò che trasmettiamo.

Noi siamo infatti figli di una mentalità, plasmata nei secoli, che ha teso sempre più a staccare i messaggi dai messaggeri, la verità dalla storia, sia che essa riguardasse l’uomo, Dio, il mondo… Siamo nati e cresciuti in un contesto pieno di verità (teologiche, antropologiche, morali, scientifiche, economiche, ecc…) che fluttuavano sulle nostre teste e che erano lì “a portata di mano” per essere usate come “frasi fatte”, “risposte pronte”, “marchingegni logici” a seconda delle varie situazioni… E – per quanto questo modo di affrontare le varie questioni della vita spesso ci sia risultato inadeguato, riduttivo, inefficace – facciamo fatica a staccarcene e a renderci conto che, forse, si potrebbe cambiare prospettiva…

La Chiesa – col Concilio – si è resa conto di questo stato di cose e ha formulato una delle più stravolgenti (rispetto alla mentalità precedente) espressioni della sua storia, quando nella Dei Verbum al n° 2 ha scritto: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi».

Al di là del linguaggio necessariamente formale del documento, mi piacerebbe che cogliessimo lo scaravoltamento in atto!

Innanzitutto, dentro ad una mentalità ecclesiale in cui la trasmissione della fede coincideva con la trasmissione delle verità (al plurale, cioè di un insieme di definizioni: pensate – soprattutto chi tra voi è più datato – a cosa voleva dire andare a dottrina – non a caso si chiamava così! – prima del Concilio: imparare a memoria il Catechismo di Pio X, cioè tutta una serie di domande e risposte che racchiudevano – appunto – le verità del Cristianesimo!), inserire “la bomba atomica” (originaria, ma dimenticata) per cui a Dio è piaciuto rivelarsi in persona, vuol dire mettere in cantina tutta quella mentalità separatista che relegava Dio lassù nei cieli (del quale infatti sapevamo solo “le verità” che ci dicevano i preti) e noi quaggiù sulla terra (a imparare a memoria il “da sapersi” su Dio – senza magari capire – e il “da farsi” morale).

Perché se a Dio è piaciuto rivelarsi in persona, allora vuol dire che c’è un po’ più sostanza che nel semplice imparare a memoria definizioni a suo riguardo! Vuol dire che il campo semantico non è semplicemente quello dell’istruzione, dell’imparare, dell’applicare, ma diventa quello del relazionarsi, conoscere, intrattenersi, voler bene…

Ha espresso bene questa svolta, in maniera profetica (perché è vissuta quasi 100 anni prima del Concilio Vaticano II), Santa Teresa di Gesù Bambino che diceva: «Sentivo che era meglio parlare a Dio che parlare di Dio» [ManoscrittoA, 125].

Se si tratta di questo, allora si capiscono bene anche le altre affermazioni di DV 2: «gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura», «infatti Dio invisibile parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».

Capite cosa è in gioco nella relazione con Dio?

Ma è ovvio che se da trasmettere non è più una dottrina, ma una relazione, un’amicizia, una comunione, le modalità di trasmissione non possono più essere quelle anaffettive dell’indottrinamento, ma diventano quelle della dinamica storica (proprio come accade nelle nostre relazioni, amicizie, comunioni umane): «Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi», cioè Dio si fa conoscere in persona, dentro ad una storia (eventi e parole intimamente connessi vuol dire questo!).

Ecco allora che entra in gioco il nostro vangelo! Era già tutto scritto lì, ma gli incrostamenti della storia ce l’avevano fatto un po’ dimenticare!

Il problema non è il “cosa andare a dire”, ma il “come essere”, il “quale storia scrivere” quando si è tra la gente col deliberato intento di essere testimoni dell’amore del Padre (cioè del Regno che viene!).

Innanzitutto bisogna essere almeno in due («Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due»), perché «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri», Gv 13,35.

Se si tratta della trasmissione di una relazione (quella con Dio) che ci cambia, perché ci fa figli e dunque fratelli, questa “cosa” non può che essere “detta” vivendo e (proprio per questo) mostrando (mai il contrario!!!) il modo nuovo di volersi bene che la comunione col Padre inaugura.

Perché se c’è una cosa indiscutibile nel vangelo è proprio questa: che l’amore con cui il Padre ci ama implica una risposta spostata; Egli infatti non chiede mai di essere ri-amato, ma di ri-amarlo amando i fratelli («Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri», Gv 13,34).

In secondo luogo bisogna “scrivere una storia” in cui la gente sia liberata dal male (almeno un pochino), in cui le si tocca la carne (almeno un pochino) e le si tolgano le catene (almeno un pochino): «dava loro potere sugli spiriti impuri».

«E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche»: «Gesù esige uno stile ed una radicalità di disimpegno dai lacci che legano al potere, al denaro, alle convenzioni del consenso socio politico, che sembra ingenuo o poetico o utopistico. Non portate nulla, perché tutto ciò che hai in più, ti divide dall'altro. Tutto ciò che hai di troppo (su cui il potere ti gioca, perché te lo può concedere, lasciar o togliere…) è pericoloso… pane, bisaccia, soldi, vestiti. Il problema si è immensamente complicato oggi – pur rimanendo limpide, incontestabili… e drammatiche queste esigenze “evangeliche”, tuttora inseparabili dal messaggio e dal contenuto del messaggio che è il Regno. È una povertà che è fede, libertà e leggerezza. Un messaggero carico di bagagli, che s’illude possano servire per spiegare e convincere meglio… sarà invece paralizzato o impedito o invischiato dall’ambiguità dei mezzi stessi a cui si affida, incapace di cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo per giudicarli irrinunciabili. Scordandosi della forza interna della Parola, che si diffonde solo se chi la porta è testimone appassionato e capace di rischiare la vita, le risorse e il futuro … perché il suo riferimento propulsore è il Signore, non qualche proprio progetto o vantaggio o interesse.  E lo Spirito che compie le parole dette!», [Giuliano].

Infine… «diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”»: l’incarico è l’annuncio, non il successo; «Se non ci sarà non deve importare, devono semplicemente andare e tentare altrove…» (Balthasar).

mercoledì 4 luglio 2012

XIV Domenica del Tempo Ordinario


In questa Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone una serie di testi biblici davvero pregnanti… Contrariamente al mio solito, vorrei però stavolta provare a lasciare un po’ nell’ombra il vangelo, per concentrarmi sulla seconda lettura, quella tratta dalla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui Paolo afferma «affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina».

Questa espressione paolina è infatti troppo intessuta nelle mie viscere (e credo – proverò a spiegarlo! – nelle viscere di ciascuno) per lasciarla passar via… perché io credo di averla questa “spina”, anche se non la saprei ben definire, come quella di Paolo, rispetto alla quale intere generazioni di esegeti han provato a dire qualcosa senza arrivare a individuarla, nello specifico.

Ma il punto forse è proprio quello, che la “spina” che ciascuno ha, è talmente sua che – forse – la si può dire solo a mezza voce a qualcuno che magari, una sera, ti sta sdraiato accanto e ha voglia di ascoltarti le viscere…

Ma anche se non è “definibile”, “circoscrivibile”, se anche non la si può racchiudere in un concetto, quella di Paolo, come quella di ciascuno, credo meriti davvero di essere un po’ guardata, perché ci dice come siamo fatti e come questo nostro modo di essere determini in maniera strutturale e non contingente il nostro rapporto al Signore.


Paolo infatti dice che questa “spina”, gli è stata “data”…

Non credo che qui intenda questo passivo, in senso materialistico: non è che ad un certo punto Dio (o chi per esso) interviene nelle nostre piccole storie per inserire in maniera estrinseca (dal di fuori) una “spina”, un male… con un fine morale: «affinché io non monti in superbia»… cioè per ricordarci la nostra precarietà, a fronte della sua onnipotenza.

Credo, anzi, che quel «è stata data alla mia carne una spina», sia molto più “semplicemente” una presa di coscienza di un dato che la storia di ciascuno incontra: tutti, nel nostro costruirci come umani, ci intessiamo di una storia che nel suo dipanarsi segna sempre – nella carne (e quindi anche nello spirito) – una ferita…

Una ferita che è un po’ diversa da quella che ci possiamo fare quando ci tolgono il dente del giudizio, o ci tagliamo con una tazzina, o veniamo punti da un’ape… perché è una ferita che determina il nostro essere, che diventa non solo parte di noi, ma diventa noi, perché segna il nostro modo di stare nella vita, di amare, di decidere, di temere, di sognare…

Non voglio fare esempi, perché il rischio è quello di ridurre questa “spina” alla puntura dell’ape… Se infatti dicessi: “Un esempio di ‘spina’ potrebbe essere che c’hai il diabete che ti accompagna tutta la vita, o che ti viene la poliomielite a 5 mesi, o che ti si separano i genitori quando sei piccolo, o che cadi nel fuoco a un anno e ti rimane la faccia bruciata a vita, o che ti muore la mamma”, immediatamente la nostra testa risponderebbe: “Eh già… ma anche in tutte queste circostanze si può continuare a vivere (e non solo a sopravvivere, ma a Vivere), anzi si deve, si deve trasformare quella che lo sguardo altrui potrebbe leggere come una non abilitazione a vivere, come qualcosa invece nonostante la quale bisogna vivere!”.

E invece no!

Perché questa logica è una logica che salta la storia, che salta la carne (che – guarda caso – è proprio il contrario di quello che fa Dio in Gesù!); è una logica che “salta” appunto… che non assume, che non trat-tiene, che non considera che quella ferita non è come la puntura dell’ape, che mi lascia tale e quale a prima, ma che mi plasma e mi fa diventare ciò che sono, foss’anche un “non abilitato” alla vita dei “normali”.

Che poi chissà dove sono questi “normali”? Io non ne ho ancora trovato uno! Tutti, tutti li ho trovati con la “spina”!

E mi pare che Paolo vada anche lui in questa direzione… Ci prova – è la reazione di tutti – ad adoperare la logica che “salta” la ferita e infatti chiede a Dio per ben tre volte che gli tolga la spina («per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me»), ma poi coglie che non è così che il Signore ragiona: «Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”».

Che non è la rassegnata considerazione di chi dice “Tanto non ce la farò mai a vivere, meno male che il Signore ci penserà poi lui, con la sua grazia”, quasi che la grazia sia un aiutino che ogni tanto ci arriva per colmare quel pezzettino in più che servirebbe e che noi non riusciamo a riempire… o quella forza misteriosa che trasforma i nostri fallimenti in riuscite…

Arrivare a dire “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” è piuttosto l’approdo ad una logica nuova, quella del Signore, quella per cui la debolezza, la “spina”, la “ferita”, il non essere abilitati alla vita perché a-normali, non è un’obiezione alla vita, ma anzi è la realtà, è la verità, è ciò che siamo, è il mio essere più intimo e più vero, quello che spesso nascondo e mi nascondo, ma che per tutta la vita non fa altro che aspettare qualcuno che lo veda e lo ami.

“Ti basta la mia grazia” è il prendere coscienza che è proprio quell’intimo lì, il già da sempre visto e amato dal Signore, Lui, che in ciò che io chiamo debolezza (e che temo e nascondo, perché penso mi renda in-abile) vede “semplicemente” me e mi sorride (questa è la grazia: che Dio mi guarda e mi sorride!).

Per questo Paolo conclude: «quando sono debole, è allora che sono forte»… quando sono debole è allora che sono (punto!). E che non nascondo più, non “salto” più, non fingo più.

In questo senso mi piace concludere ricordando l’altra frase che mi ha fatto sobbalzare delle letture di questa domenica, quella che il profeta Ezechiele ascolta da Dio: «Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

Un profeta – Ezechiele – che farà proprio questo: finché il popolo si sentirà (fingerà di essere) “forte”, lo sgriderà veementemente, ma quando la storia gli riconsegnerà la sua debolezza (il popolo andrà in esilio!) lo consolerà ricordandogli che il Signore non li ha abbandonati («Mi disse: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti’. Perciò profetizza e annuncia loro: ‘Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò’”. Oracolo del Signore Dio», Ez 37,11-14).

Io credo che proprio di questi profeti, abbiamo bisogno anche noi – popolo dalla testa dura! – di questi uomini di Dio che ci ricordino: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»… perché non montiamo in superbia, cioè perché non falsiamo la verità della nostra identità… [non a caso “superbia” è il contrario di “umiltà”, che S. Teresa di Gesù, lontana anni luce dai nostri moralismi, definisce “la verità su se stessi”!].

mercoledì 27 giugno 2012

XIII Domenica del Tempo Ordinario






Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario è di un coinvolgimento emotivo tale, da rendere difficile ogni sua esplicitazione verbale. Come scriveva Rainer Maria Rilke infatti «la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato» [Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980, 13].


Questo – credo – dipenda innanzitutto da alcune pennellate narrative che l’evangelista pone nel testo, che vanno a stendersi proprio là nell’intimo delle nostre strutture antropologiche fondamentali, nelle corde scoperte (e per questo così sensibili) della nostra interiorità: si ha a che fare infatti con la morte e con la malattia. Tra l’altro non con una morte qualunque, ammesso che ne esista una definibile così; perlomeno non con una morte codificata, “normale”, naturale; qui non si parla di qualcuno che «spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati» (Gn 25,8)… si parla di una dodicenne, di una figlia, della figlia di un capo, della figlia di un uomo, di una figlia dell’umanità.

E non si parla di una malattia qualunque, ammesso che qualche malattia si possa definire “qualunque”, ma in particolare viene sottolineato il tratto estenuante, isolante, dis-umanizzante della malattia: si parla di una donna che «aveva molto sofferto», «da dodici anni», che aveva speso «tutti i suoi averi» e che – proprio perché la sua era una malattia legata al sangue (ecco perché inizialmente sarà così intimorita da Gesù) – era condannata alla condizione e alla considerazione di impura e dunque emarginata, esclusa dalla vita sociale e civile del suo popolo.

Ecco perché questo brano non può essere ridotto a un paio di semplici miracoli, i cui racconti sono abilmente intrecciati dall’Autore in un’unica storia (cfr. per esempio il richiamo per entrambe le donne ai “dodici anni”), ma che sostanzialmente possono essere archiviati nella cartella: “Belle cose che ha fatto Gesù”. Qui implicati infatti ci sono richiami impliciti – eppure affettivamente fortissimi – alle nostre dinamiche umane più profonde: per un verso, la paura della morte, la paura della morte dei propri cari, la paura della morte dei propri figli; lo sgomento che questo provoca (un figlio infatti non è mai solo un figlio… è la promessa per l’umanità del futuro, della vita che continua anche dopo la morte degli ormai “sazi di giorni”, è la speranza in un mondo nuovo…) con la domanda su Dio che questo implica; per l’altro, la paura della sofferenza, della solitudine, dell’esclusione, dell’inabilità, della perdita della possibilità di determinarsi nella vita… con la domanda inevitabile sul senso della vita alla luce del male, dunque nuovamente la domanda sull’identità di Dio…

Anche Balthasar diceva: «Le letture odierne suscitano domande terribili. Cristo guarisce un’ammalata, risuscita una morta. Questa è la sua professione. Perché poi, dopo di lui, gli uomini devono ammalarsi di nuovo e tutti devono morire? Dio vuole la morte? Se nulla cambia in questo mondo, per che cosa Cristo è venuto?».

E – come se ancora non bastasse – a rendere ancora più contorcente le nostre viscere sta il fatto che qui in gioco accanto alla disperazione accorata di un padre (Giairo), le protagoniste siano due donne. Ciò rende il quadro ancora più toccante, non tanto, o non solo perché l’essere donna rimanda alle sfumature antropologiche più legate alla fragilità, al bisogno di custodia, al bisogno di casa… e neanche solo perché nell’essere donna è implicato l’essere fonte della vita, anche se anche questo cordone pulsante dell’umanità rifluisce in questo brano: non a caso muore una ragazzina appena entrata nell’età della fertilità e si ha a che fare con un’emorroissa. Piuttosto ciò che è così pregnante del fatto che in gioco ci siano due donne lo si può rintracciare facendo lo sforzo di uscire dalla – pur necessaria – generalizzazione, provando a entrare a vivere la situazione dal di dentro. Solo provando, infatti, a entrare dentro al racconto, dentro al racconto dal loro punto di vista, si può capire la decisività di questa dominanza emotiva del femminile, che non è solo di questo brano, ma di tutto il vangelo. Gli uomini fanno disfano, vanno, vengono… ma gli affetti sono sempre e tutti al femminile (cfr la samaritana, la donna curva, la peccatrice perdonata, le lacrime sui piedi di Gesù, Maria di Magdala nel giardino del sepolcro, ecc…).

Per questo fanno trepidare così tanto questi brani… perché intercettano – nel femminile – il disvelamento dell’affettivo sul fattivo: questi testi tirano fuori le coordinate profonde di tutti, perché nella trasparenza dell’affettività femminile mettono sul piatto della storia le fragilità di ciascuno, le passioni, le paure, i desideri, la fede, la speranza, le disillusioni, le trepidazioni…

Proviamo allora a entrare nel testo, a intercettare la libertà storica dell’emorroissa… Essa vive la disperazione della malattia e delle sue conseguenze, in qualche modo ci “sbatte in faccia” nella sua carne, ciò che devasta di terrore il cuore di ogni uomo, la solitudine esistenziale, soprattutto nella forma definitiva della morte.

Di fronte ad essa il narratore ci informa che questa donna ha messo in moto tutta una serie di tentativi per salvarsi, richiamandoci vividamente alla quasi onnicomprensiva spinta che determina la nostra vita, le sue azioni, i suoi affetti, che non è altro che la ricerca di espedienti, per salvarci appunto dalle piccole e grandi morti che costellano il nostro percorso umano…

Fino a quando sente parlare di Lui… inizialmente lo vive come un ennesimo tentativo nella sua disperata rincorsa verso la guarigione (e quante volte anche noi, facciamo di Lui un “soluzione ai nostri problemi”…), tanto che gli si avvicina clandestinamente, consapevole di non poterlo nemmeno sfiorare per legge: toccare qualcuno sapendo di essere in uno stato di impurità, quindi sapendo di “contaminarlo” era infatti uno dei comportamenti più stigmatizzati in Israele che su questo campo ha sviluppato una delle legislazioni più precise e puntuali della storia. Spera infatti che Lui nemmeno si accorga del suo tocco… E quando invece si rende conto che Lui si gira e la cerca fra la folla rimane come impietrita, agghiacciata dalla paura che quello che lei considerava un amuleto per la vita, diventasse fonte di ulteriore accusa, disprezzo, condanna, stigmatizzazione…

Lui invece si gira, la guarda e si rivela… il Dio della vita, il Dio degli ultimi, il Dio delle donne… il Dio della relazione, il cui “effetto” salvifico “funziona” solo perché si acconsente ad un rapporto, ad un guardarsi, ad un cercarsi: «Gesù non dà rimedi senza guardarti in faccia, a costo di aspettare per anni e perdersi in tentativi innumerevoli e fughe infinite, che la nostra paura più o meno consapevole si inventa. Gesù vuole guardarla e parlarle, perché il suo rimedio non è una medicina o un espediente magico … ma la comunione amicale con lui. Allora, dopo una vita a cercarlo, una forza esce da lui, che le fa sentire nel suo corpo che era guarita…», Giuliano. Ciò da cui Dio guarisce non è infatti tanto un flusso di sangue, ma un flusso di morte e da questo ci si affranca solo se si ritrova la forza di dare credito alla vita… Ma ancora, è una forza che l’uomo non può darsi da solo… è solo uno sguardo amante che ci raggiunge che può scardinare in noi i meccanismi mortali da cui siamo affetti e a volte pure affascinati: «Gli empi invocano su di sé la morte, ritenendola amica» (Sap 1,16). Per quello è necessario lasciarsi guardare…

Un po’ come Luo Cuifen, l’emorroissa del 2000. «Luo Cuifen è una giovane donna di 29 anni nata a Kunming, nel Sud della Cina. Un giorno, stanca di dirsi passerà, domani vedrai che passa, è andata dal medico. C’era sempre sangue nella pipì del mattino e a parte il dolore, a parte la sottile preoccupazione crescente, non aiuta svegliarsi e per prima cosa vedere il tuo sangue: sangue sempre, sangue ogni giorno. Il medico le ha detto: sarà una disfunzione renale, faccia una radiografia. Ecco, la radiografia del torace di Luo Cuifen è una di quelle foto che spiega il tempo in cui viviamo. L’hanno pubblicata molti giornali. Merita di essere ritagliata e di stare attaccata coi magneti al frigorifero. Nel torace di Luo ci sono 23 aghi: alcuni sono lunghi anche 2,5 cm. Nella radiografia sono sparsi sullo scheletro come bacchette di shangai, il gioco dei bimbi. Sembra un fotomontaggio e invece no. Aghi nei polmoni, nei reni, uno rotto in 3 parti proprio sotto il cervello, aghi dappertutto. Luo non era mai stata operata in vita sua, non poteva trattarsi certo di un errore di un chirurgo né d’altra parte neppure il più distratto dei medici può scordare decine di aghi lungo un metro di corpo. E dunque? Dunque sono stati 23 tentativi di ucciderla. Luo era stata affidata ai nonni, appena nata. La madre lavorava, i nonni non volevano bambine in casa – le femmine sono solo un costo nella Cina rurale, le devi crescere e mantenere per vent’anni, poi passano alla famiglia del marito, non portano indietro niente. Così hanno pensato di ucciderla con gli aghi. Forse non avevano cuore di soffocarla né di abbandonarla in un campo, forse pensavano che un killer invisibile li avrebbe sollevati almeno dal peso di essere presenti al momento della morte: sarebbe morta nel sonno, poi l’avrebbero sepolta. Ma Luo era una bambina robusta e il suo corpo con gli aghi ha trovato un accordo: ha resistito. Certo da adolescente e poi da ragazza non ha avuto vita facile. Soffriva di ansia, di depressione e di insonnia, hanno raccontato poi i medici che da tutto il mondo sono accorsi a operarla. Tanti però, tante giovani donne soffrono di ansia e di insonnia, non è necessario che gli aghi si vedano nelle radiografie, ci sono aghi invisibili che bucano il respiro e quel che bisogna fare è resistere. […] A operare Luo sono arrivati 23 medici, uno per ago. […] I nonni sono morti, non possono più dire com’è andata ammesso che da vivi avrebbero avuto cuore e coraggio per farlo. Magari si sono rallegrati, nel tempo, dell’incredibile tempra di Luo. Magari la nonna, è bello immaginarlo, l’ha festeggiata a ogni compleanno ringraziando il cielo per non averla ascoltata. Magari no, invece. La ragazza dice che non ha ricordi dei momenti in cui le infilavano gli aghi. Dice che solo una volta ha origliato una conversazione che le era risultata incomprensibile, si diceva sottovoce di qualcosa avvenuto quando aveva tre giorni di vita. Dev’essere successo quindi in un solo giorno, in un momento, in culla, come fosse una bambola di quelle che si bucano nei riti del malocchio. Mio padre ha trovato la foto del torace di Luo e l’articolo che ne parla in un giornale straniero durante un viaggio, lo ha tenuto stropicciato nel portafogli e lo ha tirato fuori ripiegato in quattro. Tieni, mi ha detto, guarda fin dove si può vincere. Vincere il destino, vincere l’ignoranza e la violenza, vincere un corpo nemico, vincere gli aghi che bucano anche quando non sai cos’è che ti fa sanguinare. Combattere, spingere la sorte più in là. Finché si può, credo che intendesse dire con quel foglio conservato come un amuleto, finché si può resistere si deve». [C. De Gregorio, Malamore, Mondadori, Milano 2008, 143-145].

Luo, come l’emorroissa del vangelo che «si ostina a credere che la sua vita può cambiare; non si arrende al suo destino. Sente che la salvezza promessa deve poter trasfigurare quel vissuto disumano; che la si può toccare con mano. E dunque, osa trasgredire le spietate regole sociali, incapaci di pensare la novità della liberazione. [E] mentre l’umanità si presenta fin da subito con il volto dissanguato e con l’accanimento di chi continua a disperdere il sangue dell’altro, la divinità manifesta la volontà di mettere fine a quella dispersione. […] È un Gesù per nulla reticente, che ammette apertamente di essere entrato in contatto con una donna impura e che benedice l’iniziativa disperata che ha osato sfidare le leggi patriarcali per rivelare la forza liberatrice della salvezza» [L. Maggi, L’evangelo delle donne. Figure femminili nel Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 2010, 32-33].

venerdì 22 giugno 2012

Germania 0 - Grecia 1

Natività di Giovanni Battista





Il 24 Giugno la Chiesa festeggia la Natività di Giovanni Battista.

E se anche – apparentemente – questa può sembrare una festa tra le altre, una delle tante indicazioni del calendario liturgico, in realtà, almeno due elementi dovrebbero subito farci attenti al fatto che in gioco vi è qualcosa di particolare:

-          Innanzitutto il fatto che la festa di un santo sostituisca le letture della domenica!

-          In secondo luogo che si tratti della festa della nascitadi un santo, non del suo martirio (che è festeggiato il 29 Agosto)… cosa che accade solo per Gesù e per Maria!

Si tratta dunque di un personaggio speciale, sul quale peraltro ci si sofferma anche in altri periodi liturgici (penso in particolare all’Avvento), ma che molto spesso noi tendiamo a dimenticare, facendo l’implicito ragionamento che se è solo il precursore, tanto vale concentrarsi sul protagonista, Gesù!

E se questo pensiero, indubbiamente, ha una sua parte di verità, non si può però nemmeno dimenticare l'altro versante, quello cioè per cui ciò che è scritto nei vangeli non è semplicemente il racconto di una storia, ma il cammino che la prima Chiesa ha delineato per accedere alla fede.

In questo senso Giovanni Battista non può essere guardato meramente come un “fase” preliminare del racconto che, quando si entra poi nel vivo, può passare in secondo piano, ma deve essere assunto in tutta la sua pregnanza di attestazione della struttura credente: noi siamo Giovanni Battista e continuiamo a esserlo anche dopo aver avuto accesso all’esperienza storica di Gesù.

Per comprendere questa cosa è forse utile ripercorrere la parabola del Precursore, così come ce la attestano i vangeli.


Per prima cosa, Giovanni è il personaggio evangelico che forse più di tutti – come scrive Giuliano in “Con Marco in cammino verso il Regno” – mostra come «l’esperienza di Dio non viene mai prima», la nostra conoscenza di Gesù, il nostro contatto con lui è sempre storico: «Niente noi possiamo avere di non storico». E storico vuol dire carnale, temporale, mescolato a sudore e sangue... Vuol dire – riferito al rapporto col Signore – che esso non è mai scioglibile dalla nostra umanità, fatta anche di limiti, inadeguatezze, stanchezze, ritardi, infedeltà...

L’annuncio del Battista mette in luce proprio questo: il desiderio di arrivare a Lui è inestricabilmente legato alla nostra impossibilità di produrre questo incontro.

L’esperienza che fa Giovanni infatti è proprio quella di desiderare la venuta del Signore e allo stesso tempo di esserne incolmabilmente distante. Ecco perché, insieme a tutta una tradizione di asceti, mette in atto una serie di tentativi che dicono il desiderio di colmare questa distanza: vesti di peli di cammello, digiuno, deserto... in una parola «quelle regioni sacre, le possibilità di vita umana che noi riteniamo meno compromesse con la storia, con la malvagità, con la distanza da Dio».

Giovanni Battista infatti ha come prima caratteristica quella di essere il profeta penitente. Questo termine nella Bibbia non ha propriamente il significato di mortificazioneche ha assunto ai giorni nostri; piuttosto con penitenza si intende «il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto “convertirsi”».

Giovanni vuole dunque preparare il cuore del popolo all’avvento del Messia, convincendosi e convincendolo della sua distanza da Dio e dunque della necessità della conversione. In questo senso il suo annuncio suonerebbe più o meno come un: “Guardate che siamo lontani da Dio, bisogna cercare di arrivarci!”.

È quanto anche noi spesso tentiamo di mettere in atto quando ci accorgiamo che le cose non vanno: facciamo un po’ di violenza su noi stessi in modo da scuoterci e dire: “No. Adesso basta. È ora di cambiare. Di rivolgerci al Signore”.

«Ma la coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile. Giovanni Battista ne aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco”». La penitenza dunque è sterile, inutile, addirittura inacidente, se è fine a se stessa, se non mantiene sempre la consapevolezza di essere pedagogica: di servire perciò a preparare sé e gli altri ad accogliere Qualcuno.

Ecco perché il Battista oltre a essere il profeta penitente è anche il profeta “ultimo”, perché «uno che ha ricevuto il Vangelo [l’annuncio del possibile incontro tra Dio e l’uomo per volontà e ad opera di Dio in persona!] non può più illudersi che ci sia ancora spazio per salvarsi con questa penitenza: [...] il Signore ha rivelato che dopo Giovanni Battista le penitenze, se non sono dirette al Signore, non servono a niente, non cambiano il cuore di fronte a Lui. Il Vecchio Testamento è finito con il Battista».

Gesù in Matteo 11,11 ribadisce proprio questo: «Tra i nati di donna non è sorto mai nessuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui»: è (solo) il più grande del Vecchio Testamento, non era possibile fare di più, infatti il più piccolo del Nuovo Testamento è più grande di lui. «E si capisce perché: ha ricevuto in regalo Dio nella sua storia, nella sua vita!».

Ma proprio qui si innesta l’imprescindibilità e l’insuperabilità di Giovanni Battista, del nostro essere strutturati come lui: perché anche quando abbiamo incontrato Gesù e ci siamo sbilanciati verso di lui, la nostra carne fatica ad essere definitivamente persuasa del ribaltamento teologico di cui Egli è portatore, quello cioè per cui non è l’uomo che può e deve arrivare a Dio, ma è Dio che – perché Padre – è in cerca dell’uomo.

Sembra quasi un gioco di parole, ma se provassimo ad assumerlo sul serio, ci accorgeremmo di quanta parte del nostro essere, del nostro pensare, pregare, scegliere andrebbe “convertito”.

Innanzitutto perché ci renderemmo conto che ciò che anima la nostra relazione al Signore, molto più che il nostro interesse di trovare (guadagnare!) una salvezza (per l’aldiqua e l’aldilà), è il suo interesse di avere parte con noi. Interessa molto più a Dio di me, di quanto a me interessi di Lui! Questo è ciò che senza ombra di dubbio emerge dalla lettura dei vangeli!

E questo sfonderebbe la dinamica della paura di Dio (che è ancora quella di Giovanni e nostra, di noi novelli Battisti), per la quale il nostro modo di stare al mondo si orienta sull’essere a Lui graditi o meno… che è una cosa molto diversa da quella che dice Teresa di GB che viveva orientata a “far piacere” al Signore (“piacere” a Dio e “fargli piacere” sono lontanissimi!): «Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo piccolo giocattolo. Gli avevo detto di non servirsi di me come di un giocattolo di valore che i bambini si accontentano di guardare senza osare toccare, ma come di una piccola palla di nessun valore che poteva gettare a terra, spingere con il piede, bucare, lasciare in un angolo o anche stringere sul cuore se questo Gli faceva piacere. In una parola volevo divertire il piccolo Gesù, fargli piacere», [Manoscritto A].

Per Giovanni Dio è ancora colui dal quale ti puoi aspettare tanto il bene quanto il male, magari non in maniera indiscriminata (come era per gli dei capricciosi dell’Olimpo) ma retributiva (il bene ai buoni, il male ai cattivi; il bene a me quando sono buono, il male a me quando sono cattivo), mentre per Gesù no: tutta la sua parabola storica può essere letta come un grido implorante all’uomo perché gli creda quando dice che Dio è Abbà.

Ed è perché Teresa gli ha creduto, che può dire quel che dice. Ed è per questo che è santa! Perché nella lotta spirituale (che non è quella contro i vizi, ma è quella contro le false immagini di Dio!) ha rotto definitivamente la dinamica della paura, ha mandato in frantumi il volto del Dio pauroso con cui la sua cultura le aveva tessuto l’anima.

Ma Giovanni non va disprezzato né superato, perché tutte le nostre anime sono state tessute col filo della paura di Dio (forse questo è il cosiddetto “peccato originale”); lo ripeto ancora, noi siamo Giovanni. Ma dentro a questo tessuto, anche noi possiamo fare quell’esperienza (e la dobbiamo far fare ad ogni uomo!) che Teresa traduce scrivendo: «Compresi che, se ero amata sulla terra, lo ero pure in Cielo» [Ivi].

Solo questa esperienza di due granelli di gratuità, seminati dentro all’insuperabile Giovanni che siamo (e a cui sempre rispunterà il dubbio su Dio, sul suo volto, con i conseguenti tentativi di adoperarsi per piacergli, facendo sforzi per migliorarsi, resistere ai vizi, aderire ad un ideale irreale di umanità pura…), terrà aperto il canale perché invece lo Spirito d’amore del Padre e del Figlio ci faccia compagnia e si diverta a stare con noi.

martedì 12 giugno 2012

XI Domenica del Tempo Ordinario (B)


Questa Domenica ricomincia (finalmente!) il Tempo Ordinario e la Chiesa ci propone due delle tre parabole del seme raccolte nel quarto capitolo di Marco. Lascio parlare in proposito due esegeti che alimentano da tempo le mie riflessioni, perché mi paiono capaci di rendere davvero bene l’idea di ciò che vi è in gioco, più di quello che forse sarei in grado di fare io.

«La vita è più di quello che si vede.Gesù trovò buona accoglienza fra quella gente della Galilea, ma sicuramente non risultava facile a nessuno credere che il regno di Dio stesse arrivando. Non vedevano nulla di particolarmente grande in quanto Gesù faceva; ci si attendeva qualcosa di più spettacolare. Dove sono quei “segni straordinari” di cui parlavano gli scrittori apocalittici? Dove si può vedere la terribile forza di Dio? Come può Gesù assicurare che il regno di Dio è già fra di loro?

Gesù dovette insegnar loro ad “avvertire” la presenza salvifica di Dio in maniera diversa, e cominciò suggerendo che la vita è più di quello che si vede; mentre noi viviamo in maniera distratta gli aspetti apparenti della vita, all’interno dell’esistenza avviene qualcosa di misterioso. Gesù mostra loro i campi della Galilea: mentre essi camminano per quelle strade senza vedere nulla di speciale, sotto quelle terre sta avvenendo qualcosa che trasformerà il seme seminato in un bel raccolto. Lo stesso avviene nel focolare: mentre si svolge la vita quotidiana della famiglia, qualcosa si verifica segretamente all’interno della massa della farina, preparata all’alba dalle donne; presto tutto il pane sarà fermentato. Così avviene con il regno di Dio. La sua forza salvifica è già all’opera all’interno della vita, e trasforma tutto in maniera misteriosa. La vita sarà come la vede Gesù? Dio sarà silenziosamente all’opera all’interno del nostro stesso vissuto? Sarà questo il segreto ultimo della vita?

La parabola che più sconcertò tutti fu forse quella del seme di senape.





Gesù avrebbe potuto parlare di un fico, di una palma o di una vigna, come faceva la tradizione; invece, in maniera sorprendente, sceglie intenzionalmente il seme di senape, considerato proverbialmente come il più piccolo di tutti: un granello delle dimensioni di una capocchia di spillo, che con il tempo diventa un arbusto di tre o quattro metri, su cui in aprile si rifugiano piccoli stormi di cardellini, cui piace molto mangiarne i chicchi. I contadini potevano contemplare la scena in qualunque tramonto.

Il linguaggio di Gesù è sconcertante e senza precedenti. Tutti attendevano la venuta di Dio come qualcosa di grande e possente; si ricordava in maniera particolare l’immagine del profeta Ezechiele, che parlava di un “cedro magnifico” piantato da Dio su “una montagna elevata ed eccelsa”, che “avrebbe messo fuori rami e prodotto frutti”, servendo da riparo a ogni sorta di passeri e uccelli del cielo. Per Gesù, la vera metafora del regno di Dio non è il cedro, che fa pensare a qualcosa di grandioso e possente, bensì la senape, che suggerisce qualcosa di debole, insignificante e piccino.

La parabola dovette penetrare profondamente in loro. Come poteva Gesù paragonare il potere salvifico di Dio a un arbusto uscito da un seme così piccino? Si doveva abbandonare la tradizione che parlava di un Dio grande e possente? Bisognava dimenticare le sue grandi gesta del passato ed essere attenti a un Dio che è già in azione in ciò che è piccolo e insignificante? Avrebbe forse ragione Gesù? Ognuno doveva decidere: o continuare ad attendere l’arrivo di un Dio possente e terribile, o arrischiarsi a credere nella sua azione salvifica presente nell’umile operato di Gesù.

Non era una decisione facile; che cosa ci si poteva attendere da qualcosa di così insignificante come quanto stava accadendo in quegli sconosciuti villaggi della Galilea? Non bisognava fare qualcosa di più per forzare gli eventi? Gesù poteva comprovare l’impazienza che regnava in non poche persone. Per contagiarle con la sua fiducia totale nell’azione di Dio, propone come esempio quanto avviene del seme che il seminatore semina nella sua terra.

Gesù li rende attenti a una scena che sono abituati a contemplare tutti gli anni nei campi della Galilea: dapprima terre seminate dai contadini; dopo pochi mesi, campagne coperte di messi. Ogni anno, alla semina segue con piena sicurezza il raccolto. Nessuno sa bene come, ma qualcosa si verifica misteriosamente sottoterra. Lo stesso avviene con il regno di Dio: esso è già all’opera in maniera occulta e segreta; vi è soltanto da attendere che giunga il raccolto.

L’unica cosa che il contadino fa è deporre in terra la semente; fatto questo, il suo compito è concluso. La crescita della pianta non dipende più da lui; egli può coricarsi tranquillo alla fine di ogni giornata, sapendo che la sua semente si sta sviluppando; può alzarsi ogni mattina e comprovare che la crescita non si arresta; nelle sue terre sta succedendo qualcosa senza che egli se lo sappia spiegare. Non rimarrà deluso; a suo tempo, avrà il suo raccolto.

Quel che importa realmente, non è il seminatore a farlo; il seme germoglia e cresce sotto l’impulso di una forza misteriosa che a lui sfugge. Gesù descrive in ogni dettaglio questa crescita, affinché i suoi uditori la possano quasi vedere. All’inizio dalla terra spunta soltanto un filo insignificante di erba verde, poi compaiono le spighe; più tardi si possono già osservare gli abbondanti chicchi di frumento. Tutto avviene senza che il seminatore abbia dovuto intervenire, perfino senza che sappia davvero bene come tale meraviglia si produca.

Tutto contribuisce in qualche modo a far sì che un giorno giunga il raccolto: il contadino, la terra e la semente. Ma Gesù invita tutti ad avvertire in questa crescita l’azione occulta e potente di Dio. La crescita della vita che si può osservare anno dopo anno nei campi seminati è sempre una sorpresa, un dono, una benedizione di Dio. Il raccolto va al di là dello sforzo che i contadini hanno potuto compiere. Qualcosa del genere si può dire del regno di Dio. Non coincide con gli sforzi che qualcuno può fare: è un dono di Dio immensamente superiore a tutti gli affanni e i travagli degli essere umani», J. A. Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 138-141.

Ciò che vi è in gioco in queste parabole dunque è prima di tutto una conversione sull’idea di Dio che abbiamo in testa: innanzitutto il fatto che «è il Regno stesso, già deposto nella storia come un seme, che viene, non sono gli uomini a farlo venire. […] L’atteggiamento prioritario del cristiano nel mondo [dunque] è l’attesa fiduciosa. Perché il regno di Dio non è cosa degli uomini, ma di Dio. Non è una realtà da ‘forzare’, come facevano gli zeloti al tempo di Gesù o come sono tentati di fare gli attivisti cristiani in ogni tempo. Il regno di Dio non è questione di organizzazione oppure di efficienza, ma semplicemente di accoglienza» [B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 20036, 39].

E di un’accoglienza tutta particolare, perché «evidentemente la pretesa di Gesù di essere l’inizio del Regno esige una profonda conversione ‘teologica’ prima che morale: anche nel tempo del compimento Dio non pianta alberi ma getta semi. È un modo assolutamente nuovo di intendere il compimento!

Il primo scopo della similitudine non è di invitare alla speranza o di suggerire all’uomo come comportarsi nei confronti di Dio. Essa piuttosto vuole suggerire una maniera diversa di immaginare la presenza del Regno nella storia. La similitudine è teologica. Ne consegue che il modo peggiore di interpretarla è quello di applicare l’immagine del seme al ministero di Gesù (e, eventualmente, della Chiesa primitiva) e quella dell’albero alla Chiesa. In realtà, il tempo di Gesù non è solo l’inizio e il fondamento del tempo della Chiesa, ma il ‘codice genetico’ che ne determina l’identità, la fisionomia e il carattere. Anche quello della Chiesa è tempo di semi, non di alberi. E sempre sorge la domanda: è qui il regno di Dio? Capovolgere la similitudine partendo dall’albero – eravamo un piccolissimo seme e ora siamo una grande comunità! – significa fraintenderla. Gesù l’ha raccontata per coloro che vivono nella situazione del seme» [Ivi, 45].
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